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‘L’emergenza di scrivere’: tracce di quotidianità ai tempi del Covid-19-Quarto racconto


L’associazione Intesa San Martino con la sua Biblioteca Sociale Roberta Venturini, mette a disposizione degli iscritti uno spazio in cui raccogliere riflessioni, pensieri, racconti, idee e paure nel periodo di isolamento imposto dall’emergenza sanitaria.

Un’urgenza di far sentire la propria voce nel silenzio scelto dalla città che continua a vivere.


Urlerò il mio amore per la vita

di Alessandro Vannucci

 Stanco pare il sole quest’oggi. E’ là, schivo, dietro ampie nubi stampate nel cielo mai totalmente azzurro della Pianura Padana. Sembra neppure sforzarsi ad uscire- refrattario- preferisce nascondersi-incerto-. Seguo quelle nubi maligne che lo coprono. Sono tante, nere, provo a contarle ma mi arrendo presto.

Dal balcone dell’ultimo piano del condominio dove vivo mi fermo ad osservare le loro forme: in quelle particelle di vapore d’acqua mi avventuro alla ricerca di sagome fantastiche, improbabili immagini di cavalli e cavalieri che solo negli occhi dei bambini si creano e si dissolvono rapidamente.

Cerco di distrarmi, di non pensare a niente, almeno per un attimo, solo per un attimo.

Nelle strade nude di auto in una domenica senza senso odo solo la sirena di un’ ambulanza che sfreccia veloce. Provo a seguirla con l’orecchio, al di là delle case che non mi consentono di osservare l’orizzonte. Mi colpisce il suo suono, così modulato e regolare. Immagino in quale zona della città possa spegnersi temporaneamente, minuti di attesa, per poi riecheggiare, poco dopo, nelle vie vuote in una corsa sfrenata direzione Ospedale.

Ora ascolto il silenzio. Ma è una pace rumorosa. Ci hanno detto che siamo in guerra contro un nemico invisibile, un predatore che uccide i più deboli e i meno accorti.. Sono questi i momenti nei quali l’uomo mostra ciò che è realmente: un po’ coraggioso e un po’ vigliacco, un po’ solidale e un po’ egoista. Alla fine ognuno ha i propri torti e le proprie ragioni. C’è chi ha assaltato i treni diretti al Sud Italia, stipati, ammassati, pigiati, alcuni senza biglietto, altri già ammalati e c’è chi ha infestato le autostrade del Nord, le seconde case, le piste da sci, le passeggiate sul lungomare, i parchi cittadini, l’happy-hour in Riviera.

Si dice che ogni tragedia metta a nudo il popolo che l’attraversa, ma in realtà la gente è fuggita, a modo loro, sperando semplicemente in un futuro migliore, giocando a scacchi con la morte pensando fosse una semplice partita a dama. Si era illusa che bastasse un tatuaggio per diventare soldato o una “ola” allo stadio per unire una nazione.

Niente di tutto ciò: alla fine ci hanno semplicemente obbligato a sostituire gli anfibi con le ciabatte, al posto del fucile uno smartphone, la trincea è la nostra casa, la guerra moderna finisce qui.

Abbasso lo sguardo.

Sui balconi sono apparsi tricolori sgualciti usati l’ultima volta per un Mondiale di calcio. In questi giorni il petto si è gonfiato, Fratelli d’Italia- l’Italia s’è desta. Mentre le campane a morto scandiscono il tempo c’è chi improvvisa tarantelle sui balconi, chi intona canzonette, chi posta foto di luoghi isolati che hanno preso il posto di spiagge dorate, chi imbastisce flash- mob , chi disegna arcobaleni e chi batte le mani.

Sospiro. Ci si abitua a tutto. Ci si abitua ai malati e ai moribondi spostati da un ospedale all’altro, da una regione all’altra perché mancano i posti in rianimazione. Ci si abitua ad ammalarci sempre di più. Ci si abitua alle scuole chiuse. Ci si abitua ai negozi serrati, agli ospedali che soffrono, alla cassiera con la mascherina, al Parlamento chiuso, alle distanze imposte per decreto, all’altoparlante che ci ricorda i codici di comportamento.

Ci si abitua anche ai morti. Cinquemilaquattrocentosettantasei in Italia, centosettanta a Parma. Sono numeri. Ma dietro ogni numero c’è un nome. E dietro ogni nome c’è un volto. E dietro ogni nome e dietro ogni volto c’è una storia.

Enzo, Giuliano, Bice, Pier Paolo, Ovidio, Rino, Angelina, Ermes, Tullio, Franco, Liliana. Nomi d’altri tempi, di uomini e donne caduti come foglie in una notte di tempesta, un patrimonio di saggezza e di umanità di un’epoca che viene spazzata via, in solitudine, talvolta su una barella in una corsia d’ospedale senza una mano conosciuta ad accompagnarli lungo l’ultimo tragitto, denudati dei loro affetti, seppelliti in modo austero, privati di un fiore, di un ricordo, di una lacrima.

E’ vero che la morte spazza via il superfluo, ma ora ha scacciato pure la compassione, niente misericordia, tanta impotenza all’inizio ma adesso rimane la pena un po’ distratta. Rischiamo di immunizzarci al lutto specie se la storia diventa troppo lunga. Non possiamo permettercelo, abbiamo urgente bisogno di piangere.

Dalla finestra aperta del primo piano la musica sparge illusioni di normalità sulla via, odori di sughi mi inebriano e i rumori di stoviglie mi destano. Le nubi, lassù, hanno vinto prendendo il sopravvento. Niente più fanti né cavalli, solo un’uniformità di ombre scure che abbracciano il cielo nella sua totalità.

Penso. Ci sono cose che uno sogna quando non le può fare. No, niente di impossibile, semplicemente cose normali come una passeggiata al parco, un caffè al bar, una cena al ristorante, un giro in moto. Semplicità. Cose scontate, alcune anche noiose e ripetitive, niente di eccitante. Eppure mancano. Il mondo pare essersi rovesciato: fino a poche settimane fa non vedevo l’ora di tornare a casa, oggi di uscire.

In questi giorni tutti uguali comincio a fare progetti e so che quando tutto quanto finirà prenderò l’auto, correrò in autostrada suonando il clacson a ogni veicolo che incontrerò e me ne andrò al mare, mi siederò sul bagnasciuga, chiuderò gli occhi e ascolterò il rumore delle onde mentre il sole mi accarezzerà il volto. E sarà bello, bellissimo, e mi verrà voglia di piangere e di ridere, e poi correrò e prenderò la sabbia e la lancerò in aria, e mi sporcherò, mi bagnerò, e canterò a squarciagola, e urlerò, eccome se urlerò. Urlerò il mio amore per la vita, urlerò il mio amore per la libertà, urlerò perché ce l’avremo fatta.

Piove. Pioggerellina insistente che scende, profumo di una primavera appena iniziata mentre l’odore di terra bagnata entra dalla finestra. Un piccione si appoggia sul davanzale, muove ritmicamente il capo. Lo osservo: ha il becco corto e le zampette di colore rosso scure, lungo le ali grigie ha delle strisce nere. I suoi occhi rossi mi guardano, paiono scrutarmi con diffidenza, forse è un po’ scontroso. Non avevo mai osservato così attentamente un piccione. Provo ad avvicinarmi ma lui vola via, lontano. Lo saluto con lo sguardo.

Osservo l’orologio, il tempo trascorre al rallentatore, un po’ come dovrebbe essere la vita. Le scorciatoie sono finite, esiste solo un’unica strada e un unico traguardo. E’ arrivato il momento di raggiungerlo.

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