“Parma, nell’immaginario di chi è lontano, è una città nella quale è desiderabile venire a viverci. Dà l’impressione di ovattata serenità, la si gira in bicicletta, si mangia ( tanto e) bene; ci sono monumenti da vedere: il Regio, il Battistero, la Cattedrale… Basta sostare anche poco in Piazza Duomo per incrociare turisti che si avvicinano, guardano, visitano.
L’insieme vasto e solenne della Cattedrale abbraccia e colpisce chi vi entra, forse non sempre consapevole di quanto va scoprendo, e poi si mette a cercare i capolavori, come la cupola del Correggio e la “Deposizione” dell’Antelami. Ci fermiamo anche noi davanti a questa scultura, quasi per ritrovare in quelle immagini i nostri volti, la nostra città. Nella sistemazione originaria era posta ben in vista dell’assemblea e formava la parte frontale dell’ambone dal quale il diacono leggeva il Vangelo. Costituiva una icona scolpita nel marmo per proclamare il Mistero della Pasqua, l’evento centrale della fede cristiana: la morte e la risurrezione del Signore Gesù che segna anche la nascita della Chiesa. Evento che non costituisce una dimensione privata e intimistica, né un’appartenenza che separa, ma riguarda tutti.
La bellezza della fede testimoniata in tutti gli ambienti dell’umana esistenza è il dono più prezioso che i cristiani possono fare ai propri fratelli uomini. Nel pieno rispetto della società plurale, essi intendono offrirlo a tutti, certi di alimentare così quell’amicizia civica che è terreno di coltura del nuovo umanesimo” (Card. Scola, sant’Ambrogio 2014).
Proprio per questo la comunità cristiana alimenta la speranza e la fiducia per l’umanità di oggi. Lo fa dando ragione della Speranza che la anima, attraverso la vita buona e la parola che chiarisce, rinfranca e accompagna. “Una fede autentica, che non è mai comoda e individualista, implica anche sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra” (EG n 183).
Il messaggio della “Deposizione” non è pertanto solo per i fedeli, ma ha un valore e contiene una proposta per tutti coloro che sono di buona volontà, perché pone al centro una persona che, rimanendo decorata della sua alta dignità, patisce violenza e a lei convergono uomini e donne che possono rappresentare il nostro mondo e la nostra città.
Viviamo ancora la crisi, che da tempo chiude in una morsa il nostro Paese e la nostra città. Se i dati statistici lasciano intravvedere qualche spiraglio, non così la situazione di tanti che fanno fatica a tirare avanti. Se infatti, come attesta anche il recente rapporto del Mercato del lavoro provinciale, c’è una ripresa nelle assunzioni, questa crescita non è però in grado di compensare l’aumento delle cessazioni dei rapporti di lavoro.
Da segnalare, inoltre, che la carenza di domanda di lavoro in alcuni settori contribuisce a penalizzare i giovani; la disoccupazione giovanile ha pertanto continuato la sua crescita, passando dal 19,2% nel 2012 al 22,8% nel 2013. Siamo ancora sotto la media nazionale, ma registriamo con preoccupazione questi dati, uniti ad altri indici. Papa Francesco collega la perdita del lavoro alla perdita della dignità della persona e, conseguentemente, al venir meno della prospettiva di futuro.
Può nascere una domanda: in questo contesto di crisi, a Parma la persona è sostenuta nella sua dignità e nella sua realizzazione? La risposta sembra scontata e affermativa, perché non abbiamo la negazione di diritti fondamentali e non subiamo le persecuzioni che in altre parti del mondo si sono attuate, spesso nel colpevole silenzio che si muta in giusto sdegno, solo quando la loro eco ci raggiunge da vicino.
In realtà, anche da noi si pongono domande su condizioni fondamentali inerenti la salute, la difficoltà a far fronte al pagamento di ticket sanitari, mentre è a rischio in città il mantenimento di un’alta qualità della sanità pubblica; l’istruzione, se consideriamo la significativa incidenza dell’abbandono scolastico di molti adolescenti, oltre alla difficoltà di provvedere alle spese per il materiale scolastico e per la mensa da parte di molte famiglie; l’abitazione che rappresenta un grande problema, che deve uscire “dall’emergenza” con una programmazione che reperisca e valorizzi risorse presenti nel pubblico oltre che nel privato.
Sullo sfondo, spesso come causa scatenante, la perdita del posto di lavoro e la non possibilità di accedere al lavoro da parte sia dei giovani che di persone ritenute non più “interessanti” e che, per la loro la fascia di età, hanno ancora responsabilità di carattere formativo ed educativo verso i figli e impegni di cura verso i familiari anziani. Una realtà che si fa più grave e acuta in tante famiglie che vivono situazioni particolari: nuclei familiari numerosi o con membri disabili o non autosufficienti, o famiglie unigenitoriali o monoreddito o senza reddito.
In occasione dell’ultima giornata dei diritti abbiamo letto (con sorpresa) che Parma si vanta di essere paladina dei diritti, annoverando tra questi la costituzione del registro delle unioni civili e del registro dei testamenti biologici. E’ questo che la gente si attende?
Viviamo anche l’apparente paradosso tra la denuncia di queste situazioni drammatiche e l’ostentazione di un modo di vivere che sembra dimenticarle. Anche a Parma si è aperta ancor di più la forbice tra chi ha visto il proprio tenore di vita calare fino alle soglie dell’indigenza, chi fa fatica ad andare avanti, chi ha sempre meno ed è sceso nella povertà, e chi non ha questi problemi e, o si arricchisce anche in questa crisi.
Non fa meraviglia la segnalazione che l’Italia, e Parma non fa eccezione, è al 134esimo posto su 142 alla voce “speranza”. La perdita di speranza appiattisce sull’oggi, favorisce l’insicurezza e la rinuncia. Un rischio che è di tutti, ma che colpisce soprattutto i giovani. Sono di questi giorni notizie preoccupanti riguardo ai suicidi, all’aumento della dipendenza da alcol e da sostanze, all’abuso di internet (l’ultima novità, il sexting) e al già citato abbandono della scuola, con l’assenza di altri progetti in tanti adolescenti o giovanissimi. I cosiddetti “neet” (acronimo inglese che indica i non impegnati nello studio, né nel lavoro, né nella sua ricerca) in versione anticipata.
C’è chi parla di “povertà di futuro, come una delle povertà che più preoccupa e inquieta”. Povertà di futuro che comporta “affrontare un nuovo anno con la convinzione che nulla cambierà, che tutto resterà uguale o, addirittura, che la situazione, nostra, del Paese, o del mondo, peggiorerà” (cfr. Virgilio Colmegna). Anche la nostra città non sembra discostarsi da quanto si legge nel rapporto Censi, che parla di una società “sciapa”, che non è più capace di vivere “con vigore e fervore”.
Se in una città i giovani non sognano, la città muore.
Fissando ancora l’opera dell’Antelami, troviamo che nella parte destra c’è un gruppo di persone che “sta a vedere” ( cfr Lc 23,35) quasi in attesa di quanto possa succedere. E’ forse la gente che vive a Parma e che rischia di essere e rimanere ferma? Come chi, pur avendo le ali, non sa o ha paura ad usarle. Due ali ferme, come il frammento di un affresco, che troviamo nella cripta della Cattedrale, e che le raffigura attaccate ad una grata, oltre la quale non si vede nulla e non si va. L’usura del tempo probabilmente ha cancellato le statue, ponendoci come una sfida.
Parma è anche la città che ha patito l’alluvione, in quella resa dei conti drammatica sulla salvaguardia e sulla cura del territorio che la natura, senza sconti e sempre più di frequente, presenta. Ringraziamo Dio che non abbiamo avuto vittime e che tanti hanno offerto una generosità che ha saputo e potuto sovvenire, anche nell’immediatezza di questi eventi, ai bisogni di persone, famiglie e comunità che avevano perduto mezzi di sostentamento, abitazione, lavoro. Qui si incastona, come una perla preziosa, il lavoro di quei giovani che si sono offerti, pagando di persona con la fatica e la rinuncia, per dare un aiuto che si è rivelato indispensabile e ha ridato speranza. Ho sentito tanti che hanno riscoperto la fiducia, non in altri, ma tramite questi giovani. Tra il fango è passata una folata di speranza e fiducia. Ne ha bisogno tutta la città.
Ai giovani del fango la comunità deve dire grazie perché hanno messe le ali, dimostrando che le tante facce della crisi non le appesantiscono al punto di tenerci schiacciati a terra.
Bisogna rivitalizzare la fiducia in se stessi, la fiducia reciproca e la fiducia nella comunità che ci ha generato e ci ha aiutato a superare situazioni difficili. Una comunità con tanti volti, che ha una sua storia, che ha dimostrato nel tempo tenuta e forza. Una comunità fatta di tante persone che si assumono responsabilità e compiti, coniugando insieme l’onestà con la necessaria competenza. Comunità che va rispettata e servita, senza la pretesa di crearla: c’è già!
“Il nuovo non è l’inedito a ogni costo. Piuttosto nuovo è camminare non perdendo l’origine, è un ri-cominciare”. (Card. Scola, ibidem)
Occorre mettersi a servire la comunità perché possa ritrovare fiducia, senza la quale c’è solo il sospetto, l’autoreferenzialità la paura che generano apatia e rinuncia, a partire dall’impegno nell’educazione.
Ci sono fonti che generano fiducia.
La famiglia, comunità primaria che si origina dalla fiducia reciproca e che la genera realizzando comunione tra una donna e un uomo e tra i genitori e i figli nella catena delle generazioni. I fatti tragici che avvengono tra i muri domestici, enfatizzati all’inverosimile, fanno clamore perché esprimono il contrario di quanto normalmente si attende e si attua nelle famiglie. Il percorso sinodale, che papa Francesco ha voluto, ha messo la Chiesa di fronte a scelte fondamentali sulla famiglia, senza arretrare davanti alle situazioni più delicate.
La famiglia lancia un appello non più dilazionabile non solo alla Chiesa, ma anche allo Stato e alla nostra città, che aveva intrapreso percorsi, sia pur perfettibili, ma virtuosi per le famiglie. Giunge una richiesta forte dalle famiglie perché siano messe nella condizione di compiere la loro missione, di donare fiducia; così pure la richiesta da tanti giovani ( cfr. Rapporto Toniolo) di essere messi nella condizione di fare famiglia e di attuare il loro progetto di generatività. Molti soggetti istituzionali sono chiamati in causa, se credono al dettame costituzionale – oltre che naturale – sulla famiglia e se sono disposti a fare quanto compete loro.
Le forme di aiuto reciproco e di volontariato e le realtà associate, desiderose di partecipare alla costruzione del bene comune, costituiscono un’altra fonte. Sono come un nodo che genera fiducia, incrociando le volontà buone di più persone per un fine che sostiene il bene di altri e di gruppi . Non sono servizi da elencare tra gli altri, ma persone che si fanno servizio per il bene di altri. Qui nasce e si rafforza la fiducia reciproca. Proprio questa relazione vitale chiede di essere sostenuta e messa in grado di operare, senza essere inglobata, strumentalizzata, ma solo facilitata. Sono persone che non possono essere sostituite d’ufficio, come avviene in contesti diversi, perché sono anelli di relazioni, depositari di una fiducia acquisita con l’aiutare, sia pure in cose piccole, ma quotidiane, quindi importanti. La specificità di queste forme richiede ascolto, rispetto, a volte anche un passo indietro da stereotipi che si attuano altrove.
Tra le tante realtà mi permetto quest’anno di ricordare i 40 anni della Caritas diocesana (1974-2014). Non un servizio, ma un annuncio e un’educazione a stare accanto, ad intessere rapporti dettati dal dono di sé, che si traducono anche nell’offerta di aiuto, di qualcosa, ma sempre legato all’ascolto, al dialogo e ad una progettualità. È la porta della chiesa che si apre e resta aperta offrendo, a volte, molto di più quanto appare, ma che non si vuole ostentare.
Mi piace pensare all’anonimato di tanti che ci stanno, in un contatto diretto, “domestico”, oso dire, con persone e famiglie che trovano fraternità e anche amicizia. All’indomani dell’alluvione con gli stivali ai piedi, un gruppo di donne in un sotto chiesa riassettano l’ambiente Caritas e il loro Atelier dove consigliano e adattano gli abiti che gratuitamente offrono a chi ne ha bisogno, certe di una dignità di chi offre e di chi riceve, dignità di entrambi che non è dissimile ai volti effigiati da Benedetto Antelami.
Proprio di fianco alla Cattedrale, anticipando la richiesta di papa Francesco, il Seminario Maggiore ospita accoglienze – per la notte – per chi ha bisogno e per i profughi. Un luogo benemerito di formazione ha espresso un altro genere di carità, cosi come la mensa continua ogni giorno a spezzare il pane che – per chi crede – è Cristo che si è fatto pane per tutti. E con la premura di un menù particolare per chi ha fedi religiose e abitudini diverse dai cristiani.
Tutte queste persone sembrano simili a chi è raffigurato nella parte centrale della “Deposizione”. Liberano dal legno il corpo del condannato, collaborano per tutelarne la dignità, altamente espressa dall’artista, e compiono già un’opera di consolazione verso la madre. La mano che sfiora la sua guancia è compassione e sollecitudine, che riscontriamo quotidianamente nelle case e tracima ancora nei gesti di tante persone, associate o meno, che – in una relazione di fiducia- donano quella vicinanza che, sola, può vincere la solitudine, uno dei mali peggiori di oggi.
La scena dell’Antelami ci suggerisce questo, ricordando la vicinanza di persone buone al condannato, che non è rimasto solo nel momento tragico, ma denuncia anche l’indifferenza e addirittura il cinismo di persone dure che ricavano profitto da quello che sta succedendo e giocano a dadi le vesti del crocifisso ( Gv 19, 23 – 24).
Mostra pure la figura di chi, partecipe di questo fatto, ne è colpito: cambia la propria prospettiva, cambia se stesso.( Mc 15,39)
La fiducia è anche quella del cambiamento della nostra persona, e della persona dell’altro alla quale attribuiamo fiducia.
E’ il centurione, uno straniero che compie questo passaggio. Il velo del tempio che si squarcia (Mc 15,38) apre a tutti gli uomini l’incontro con il Cristo e la salvezza che ci è data dalla sua morte e risurrezione; segno per tutti di una fiducia che nasce dalla condivisione di un’umanità rinnovata. Il centurione sostiene uno scudo da cavalleria, parma in latino. Petrarca, già canonico di questa cattedrale, definì “Parma scudo dell’impero”. Desidero pensare, cosciente di un’interpretazione fantasiosa, alla presenza viva della nostra città nella dinamica che l’Antelami ci ha trasmesso, quella città che si riunisce qui nella fede del Risorto, come quella città che ne coglie soltanto il messaggio umano e fraterno.
Parma è ricca di queste persone.
Osservando con uno sguardo meno fugace, la croce appare gemmata, come se nascesse dalla morte una primavera nuova. È il centro del Messaggio per il credente, la Risurrezione; è un appello alla speranza per tutti.
Una speranza consegnata dallo stesso Crocifisso, apparentemente un fallito. Gesù di Nazareth è passato facendo del bene (Atti 10,38), dando di nuovo fiducia all’uomo perché – da chino su di sé – potesse tornare a rialzarsi nella sua dignità, a guardare dritto avanti a sé e a fare comunità con gli altri.
E’ la fiducia offerta dal Risorto a chi ha scelto e lo accompagna nel cammino; è la fiducia accordata a chi ha sbagliato, aprendo davanti un futuro inatteso, e agli stessi suoi amici che lo hanno abbandonato nella passione. La croce gemmata è segno che dare fiducia, offrire una proposta buona, genera futuro e innesta uno sviluppo virtuoso”.
Enrico Solmi
Vescovo