Più del 10 per cento dei 50 mila ettari di vigne dell’Emilia Romagna sono ormai coltivate con vini ottenuti da vitigni che hanno rischiato di sparire e che oggi rappresentano una percentuale di circa l’8 per cento dei sei milioni di ettolitri di vino prodotti in Emilia Romagna . È la stima di Coldiretti Emilia Romagna che ha realizzato a Cibus, salone internazionale dell’Alimentazione di Parma, una “cantina dei vini salvati dall’oblio”. Si tratta di vitigni autoctoni, che a causa delle poca produttività o della difficoltà di coltivazione e vinificazione hanno rischiato di sparire dai vigneti dell’Emilia Romagna. Negli ultimi vent’anni, grazie alla passione dei viticoltori e all’attività di ricercatori, questi vitigni sono stati recuperati e salvati – afferma Coldiretti – anche grazie all’attenzione delle istituzioni verso la salvaguardia della biodiversità e alla ricerca da parte dei consumatori di prodotti del territorio, anche a sostegno all’economia locale, come dimostra il fatto che le bottiglie più richieste sono quelle prodotte a livello regionale.
I nomi di questi vini – informa Coldiretti – vanno da quelli più famosi a quelli sconosciuti restati nella memoria di pochi. Sicuramente conosciuta è l’uva Fogarina, anche se digitando il suo nome su Google, tra le prime risposte otterrete “canzone popolare italiana” o “italian song”, in realtà si tratta di un vino che è stato molto importante per la bassa pianura reggiana dove negli anni Venti del secolo scorso venivano prodotti 50 mila quintali di uva. Ha rischiato di sparire nel dopoguerra, ma per fortuna è stato recuperato all’inizio degli anni Novanta, anche perché il grande esperto di vini, Luigi Veronelli affermava che vinificato in maniera adeguata poteva dare risultati pari a quelli dei grandi vini Toscani.
In Terra di Romagna l’emblema dei vini salvati è l’uva Longanesi, un vitigno forte e resistente – ricorda Coldiretti – che ha attraversato tutto il secolo scorso prima di uscire dall’anonimato ed essere iscritto al registro nazionale delle varietà di vite. Recuperato nel 1913 da una vite collocata in un appostamento di caccia in un’azienda di Bagnacavallo, ha preso il nome dalla famiglia che l’aveva scoperto: i Longanesi, detti Bursôn. Come il precedente, anche il Sauvignon Rosso (nessuna parentela con l’omonimo bianco) ha preso il nome di Centesimino dal soprannome di Pietro Pianori, il primo che lo reimpiantò dopo la sua riscoperta nel cortile di un Palazzo a Faenza, le cui mura lo avevano protetto dalla Fillossera.
Ampiamente conosciuti sono anche il romagnolo Pagadebit, giunto in Romagna ai tempi dei Bizantini, famoso perché “aiutava a pagare i debiti”, e il bolognese Pignoletto, un tempo confuso con Pinot Bianco e Riesling italico, mentre l’analisi del Dna ha rivelato caratteri genetici sostanzialmente identici al Grechetto Gentile che sulle colline bolognesi ha trovato il suo habitat ideale, e il piacentino Ortrugo, vitigno che sembrava scomparso e poi ritrovato all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso.
Meno conosciuto, nonostante il nome, è il romagnolo “Famoso”, derivato da un’uva bianca che dopo anni di abbandono è stato riscoperto in Romagna e riportato in produzione, insieme all’uva del Tundé, un’uva a bacca rossa che, forse per sistemi di coltivazione errati che portava a basse rese, ha rischiato di sparire ed è stata oggi recuperata e valorizzata, grazie all’impegno di un gruppo di agricoltori. Alla storia di questi vini romagnoli si può paragonare la storia del vitigno dell’uva Termarina, uno dei più antichi vitigni censiti nella zona di Parma e Reggio recuperato da antichi ceppi autoctoni e rilanciato nel 2007 con l’iscrizione al registro nazionale delle varietà di vite.
Molto antichi sono, in provincia di Reggio Emilia, il vitigno dell’Uva Spergola che viene fatto risalire all’inizio degli anni Mille, ai tempi di Matilde di Canossa, e il vitigno del Lambrusco di Corbelli o di Rivalta, scoperto quando si è deciso di riportare alla luce il “giardino segreto” della Reggia di Rivalta, dove sono stati ritrovati due antichi filari di questa vite.
Santa Maria, Melara, Bervedino sono invece i nomi di vitigni dei colli piacentini che non si trovano vinificati in purezza, ma entrano a comporre l’uvaggio del Vin Santo di Vigoleno, la più piccola Doc d’Italia con meno di 3.000 bottiglie prodotte ogni anno sulle colline piacentine.
Il recupero di questi vini – commenta Coldiretti Emilia Romagna – è importante sia per la salvaguardia della biodiversità, sia per mantenere viva l’agricoltura in zone dove rischia di sparire. Il loro rilancio si deve anche ai nuovi sbocchi commerciali dei mercati e delle fattorie di Campagna Amica che hanno offerto nuove opportunità agli agricoltori che proprio nel settore vitivinicolo sono all’avanguardia nelle vendite dirette. Una su tre delle 22 mila aziende con vigneto nella nostra regione – ricorda Coldiretti Emilia Romagna – vende direttamente al consumatore. Quello della vendita diretta del vino – commenta Coldiretti Emilia Romagna – è una tendenza in continuo aumento negli ultimi anni anche come risposta alle richieste dei consumatori di conoscere personalmente il produttore e scoprire le caratteristiche del prodotto che intendono acquistare, andando contemporaneamente alla scoperta del territorio di origine.
La Cantina dei vini salvati
Bursôn – detta anche uva Longanesi, recuperato a Bagnacavallo, inizio Novecento in un appostamento di caccia.
Centesimino – registrato anche come Sauvignon Rosso, recuperato nel cortile di un palazzo di Faenza le cui mura lo hanno preservato dalla Fillossera.
Famoso – dopo anni di abbandono per la bassa produzione, è stato recuperato grazie all’impegno di un gruppo di viticoltori.
Fogarina – attorno al 1920 era un dei vitigni forti del reggiano poi era rimasto solo nella canzone, oggi recuperato dopo i giudizi lusinghieri del grande Luigi Veronelli.
Lambrusco Di Corbelli o Di Rivalta – riscoperto nel 2012 all’interno del “giardino segreto” della Reggia di Rivalta a Reggio Emilia è oggetto di studio di esperti e di recupero da parte di produttori.
Malbo Gentile – risale al vitigno “Amabile di Genova” fatto portare nei territori estensi ai primi del 1400 da Gigliola da Carrara, consorte di Niccolò III d’Este. Tipico di Reggio Emilia e Modena
Malvasia di Candia aromatica – originario dell’Isola di Creta, importato in Italia attorno al 1250. Prodotto nelle vallate di Parma e Piacenza.
Ortrugo – sembra scomparso, ma è stato riscoperto all’inizio degli anni Settanta, diventando una delle colonne della viticoltura dei Colli piacentini.
Pagadebit – per la sua resistenza era il vitigno che garantiva sempre la produzione e “pagava i debiti” del contadino. La vinificazione di alta qualità lo ha fatto diventare un vino importante dell’enologia romagnola.
Pignoletto – confuso a lungo con Riesling Italico e Pinot Bianco, l’analisi del Dna ha consentito di scoprire che è imparentato con il Grechetto Gentile. È diventato l’emblema dell’enologia bolognese.
Santa Maria, Melara, Bervedino – sulle colline piacentine sono rimasti pochi vigneti di questi vitigni, ma sono fondamentali per il Vin Santo di Vigoleno, la più piccola Doc d’Italia.
Spergola – vitigno autoctono del reggiano salvato grazie alla riscoperta di un antico ceppo ultracentenario.
Termarina – è uno dei più antichi vitigni censiti nella zona di Parma e Reggio recuperato da antichi ceppi autoctoni e rilanciato nel 2007 con l’iscrizione al registro nazionale delle varietà di vite.
Tundè – era quasi scomparsa per la sua bassa produzione, ma un attento sistema di allevamento e grande attenzione nella vinificazione hanno riportato questo vitigno in auge nel 2009.