Quello del mercato della prostituzione è un mondo molto vasto che abbraccia stili di vita e situazioni molto differenti tra loro. C’è chi sceglie di diventare una “sex worker”, chi invece viene costretta a vendersi e rischia anche la vita. La nuova tratta ha provocato in un solo decennio e solo nel sud-est asiatico 33 milioni di vittime, più morti di quanto il commercio di schiavi africani negli Usa ha fatto in quattro secoli.
Schiava, meretrice, passeggiatrice, sex worker, accompagnatrice, escort. La medaglia della prostituzione non ha due ma molte facce e sta sempre appesa al collo di una donna stigmatizzata come “puttana”. Ma se, come cantava qualcuno, dietro ogni matto c’è un villaggio, dietro ogni prostituta c’è un mondo. Una donna con i suoi trascorsi, le sue motivazioni, la sua libertà, in molti casi la sua schiavitù. Parlare di prostituzione in un’ottica di genere significa partire da questo presupposto, analizzando le condizioni sociali e psicologiche di partenza che conducono, ancora oggi, circa 42 milioni di donne nel mondo a vendere il proprio corpo per denaro.
Quello della prostituzione è un mondo quanto mai complesso perché al suo interno convivono costrizione e libera scelta, inganno e consapevolezza, miseria e benessere. Per queste ragioni, oltre che per questioni legate alla morale, il legislatore italiano non è mai riuscito ad emanare disposizioni capaci di accontentare tutti e tutte, consentendo alle prostitute volontarie di esercitare il proprio lavoro con diritti e garanzie e tutelando al tempo stesso, adeguatamente, le vittime della tratta.
Queste ultime rappresentano senza dubbio l’aspetto più aberrante e violento di tutto il mondo legato alla prostituzione, tanto da non potersi dire neppure prostitute ma schiave: i meccanismi che articolano la tratta sono di fatto identici a quelli della deportazione e della schiavitù dei secoli scorsi.
Oltre alle vittime della tratta ci sono le donne che si prostituiscono tenendo per sé una parte dei guadagni e dando il resto a personaggi più o meno etichettabili come sfruttatori: è il caso delle ballerine dei night, delle straniere che si prostituiscono in appartamento, delle orientali che lavorano in fittizi centri per massaggi. Il fenomeno del semi-sfruttamento è tendenzialmente legato all’indoor (la prostituzione in appartamenti), e rappresenta la nuova frontiera del mercato.
Poi ci sono le donne che esercitano questo lavoro in totale autonomia, consapevolmente. Si definiscono sex workers, escort, accompagnatrici: alcune lo fanno per puro piacere, altre per mantenere un tenore di vita alto, che con un lavoro normale non potrebbero permettersi, altre ancora (ed è il caso delle studentesse, novità degli ultimi anni) per pagarsi gli studi. Pur non essendo ovviamente paragonabile a quella delle vittime di tratta, anche queste donne vivono una condizione disagiata, perché anche se non commettono alcun reato, esercitano una professione non riconosciuta come tale e sono quindi dei soggetti vulnerabili.
Vittime di tratta, non prostitute. Secondo l’ultimo Rapporto mondiale sugli abusi sessuali pubblicato dalla Fondation Scelles, la maggior parte delle donne che nel mondo si prostituisce si trova alle dipendenze di uno sfruttatore. È qui che entra in gioco la prima importante distinzione, perché “Queste donne – spiega Oria Gargano, fondatrice e presidente di BeFree, Cooperativa Sociale contro tratta, violenze e discriminazioni – non sono prostitute ma “prostituite” “.
Dai dati dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime) e dell’Icmpd (International Centre for Migration Policy Development) emerge che la tratta ha fatto in Europa 52.340 vittime in soli 5 anni (dal 2003 al 2007) e nel mondo, secondo l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (IOM) dai 2 ai 4 milioni, l’80% delle quali donne, di cui il 70% destinato allo sfruttamento sessuale. Una cifra approssimata per difetto, dato che, sempre secondo i dati Icmpd, per ogni vittima intercettata ce ne sono alter 59 che restano nell’ombra, e quindi, spiega Francesco Carchedi in La tratta di esseri umani – Alcuni aspetti delle principali forme di sfruttamento (IBS, 2012), “la parte sommersa del fenomeno è pari ad un’ampiezza di circa 60 volte superiore della parte conosciuta del fenomeno medesimo”.
Nella maggior parte dei Paesi del mondo mancano legislazioni adeguate contro la tratta e sono scarse le risorse messe a disposizione per la prevenzione e il contrasto. Le vittime, dal canto loro, sono restie a denunciare i propri sfruttatori anche in presenza di norme che potrebbero tutelarle. La questione è dunque molto complessa. Quel che è certo è che il fenomeno ha conosciuto un boom a partire dagli anni ’80 e ’90, soprattutto in seguito alle migrazioni dai Balcani e dai Paesi africani che si affacciano sul Golfo di Guinea. La caduta del muro di Berlino e l’effetto domino sugli altri Stati dell’ex blocco sovietico hanno accelerato il fenomeno della deportazione in Italia, spingendo in pochi anni, nel nostro Paese, orde di giovanissime sottoposte a varie forme di sfruttamento.
Per quanto riguarda l’Italia, il numero delle donne che si prostituisce, secondo il Gruppo Abele è pari a 70mila, per 9milioni di clienti, con un giro di affari di milioni e milioni di euro. Secondo l’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) tra le 19mila e le 26mila sono vittime di tratta, dato che per Transcrime (Centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità transnazionale) sarebbe però molto più alto. Come scrivono Anna Pozzi e Eugenia Bonetti nel libro Schiave (San Paolo, 2010), circa l’80% sono straniere, buona parte arriva dai Paesi dell’est (Albania, Romania e Moldavia in particolare), una grossa percentuale dalla Nigeria e ultimamente molte anche dalla Cina. Le transgender, per lo più provenienti dal Brasile, sono in aumento e le minorenni rappresentano il 7% del totale. Le più autonome sono le romene, di età mediamente compresa, secondo un’indagine svolta in Romania nel 2011, fra i 12 e i 42 anni e spesso legate sentimentalmente al proprio sfruttatore, che in molti casi è il marito o il convivente. Generalmente a queste donne viene permesso di tenere una parte esigua dei guadagni, illudendole così che quel che fanno convenga a entrambi. Ridotte, invece, in condizione di totale schiavitù sono le nigeriane, sfruttate dalla maman, una donna ricca ed elegante che le recluta in un momento drammatico della vita (a seguito di una tragedia familiare o economica che le rende vulnerabili) e le spedisce in Europa con la promessa di un posto di lavoro da parrucchiera. Il viaggio comincia solo dopo aver fatto alle ragazze il rito woodoo/ju ju, che le obbliga a non ribellarsi all’organizzazione criminale, pena la maledizione di tutta la famiglia.
Arrivate nel vecchio continente, le ragazze hanno un debito altissimo, fino a 60 mila euro secondo i dati di Befree e On the Road onlus, da restituire integralmente con rapporti sessuali da appena 15 euro a prestazione. Le nigeriane vengono costrette a prostituirsi per lo più in strada, e stanno sempre in gruppo, incoraggiandosi reciprocamente. Come spiega Don Luigi Ciotti nella prefazione al libro di Giancarlo Ferrero “Contro il reato di immigrazione clandestina” (Ediesse, 2010), le nigeriane, quasi sempre prive di documenti di riconoscimento e di viaggio, veng, ono spesso identificate dalle forze di polizia come irregolari e sono soggette a provvedimenti di espulsione, laddove invece, in base all’art.18 della legge n. 286 del 1988 (T. U. sull’immigrazione) dovrebbero essere trattate come donne trafficate bisognose di protezione sociale. Si tratta, spiegano Ciotti e Carchedi, di uno degli aspetti perversi del “Pacchetto sicurezza” che non guarda allo straniero come a un soggetto vulnerabile ma, semplicemente, irregolare e quindi da espellere, in violazione delle più elementary disposizioni in materia di diritti umani.
In base agli accordi bilaterali Italia-Nigeria del 2002, le nigeriane vengono rispedite a casa con aerei appositamente noleggiati, in cui viaggiano scortate dai poliziotti. Una volta in Africa, vengono ammassate in una sorta di centro di detenzione temporanea che si trova a Lagos, finché non arrivano le famiglie a reclamarle. Questo di certo, per loro, non significa libertà: alcune restano in Nigeria a fare le prostitute, altre ricontattano gli Italos (i trafficanti) e tornano in Italia con un debito raddoppiato. La ragazza, sempre più indebitata, sempre più fragile, sarà infatti anche sempre più propensa ad accettare le richieste di sesso non protetto che arriveranno dai clienti.
Le conoscenze sulle rotte che i trafficanti rumeni, albanesi, russi e nigeriani intraprendono per trasportare donne da destinare al mercato della prostituzione coatta sono ormai consolidate. Con l’eccezione della Nigeria, il traffico si concentra via terra. Ecco perché, come scrive Fabrizio Mastrofini nel libro “Intrattabili” (EMI, 2010), “i proclami contro gli sbarchi dei clandestini non servono e risultano utili solo a gettare polvere negli occhi della cosiddetta opinione pubblica”.
Nell’ambito dei mercati della tratta, Mosca è diventata un nodo chiave. È qui che si intrecciano tutte le strade dirette verso l’Europa occidentale con provenienza dall’Asia orientale, centrale e del sud, dal Medio Oriente e dall’Europa dell’est. La criminalità organizzata russa, che si occupa della tratta di donne provenienti dai Paesi dell’ex Unione Sovietica, è in possesso di ingenti risorse finanziarie che investe nei settori immobiliari e del turismo in Lombardia, Liguria e Riviera adriatica. Quella romena opera invece generalmente in collaborazione con albanesi e ucraini. Si tratta di gruppi criminali in continua espansione, molto violenti, che trafficano prevalentemente nei Paesi del centro-nord Europa. In Romania, inoltre, da qualche anno si assiste ad un fenomeno di tratta a scopo di sfruttamento sessuale e a un altro, parallelo, orientato a sfruttare le donne sul territorio locale. Ad una tratta di persone che si dirige e si sviluppa all’estero ne fa insomma da contraltare un’altra che si sviluppa all’interno della Romania.
Anche i sodalizi criminali di cittadini nordafricani provenienti da Marocco, Algeria e Tunisia, prima dediti solo allo spaccio di droga, ora hanno iniziato a dedicarsi alla tratta degli esseri umani nonché alla contraffazione di documenti di identità.
Per quanto riguarda il traffico delle nigeriane, ci sono i percorsi dell’ovest, utilizzati dai trafficanti che preferiscono attraversare o lambire il Marocco (via terra o via mare); ci sono le rotte che passano da sud-est, attraversando il Sahara meridionale per poi approdare in Egitto e in Turchia e ancora in Bulgaria e dunque nel resto d’Europa. Più il tratto è lungo, più queste donne vengono sfruttate, o pretendendo altri soldi oltre a quelli pattuiti all’origine o abusando sessualmente di loro o costringendole alla prostituzione per acquisire denaro per continuare il tragitto. Lo sfruttamento violento, dunque, inizia già durante il percorso migratorio, e continua naturalmente all’arrivo, magari dopo una compravendita dei trafficanti.
Secondo i dati di Osservatorio tratta, il traffico cinese rappresenta uno degli elementi più nuovi e rilevanti degli ultimi anni, sia in termini di soggettività coinvolte, sia rispetto alle gravi condizioni di sfruttamento, soprattutto per quanto riguarda la prostituzione in appartamento. L’esercizio al chiuso, la clandestinità e l’isolamento linguistico e culturale, il sistema di mascheramento e di controllo in base al quale le prostitute sono mere esecutrici di un portafogli clienti gestito da donne chiamate “laoban” (capi), rende queste persone invisibili e inaccessibili a qualsiasi contatto. Secondo Mastrofini, le aree di provenienza sono il nord e il nord-ovest della Cina, diversamente dall’emigrazione storica di cinesi verso l’Italia, costituita da persone provenienti dalle regioni centrali. Altra particolarità riguarda l’età, la più elevata tra i gruppi interessati al fenomeno della tratta. Il progetto migratorio di queste donne è generalmente temporaneo, finalizzato a raccogliere i soldi necessari per far studiare i figli. Una volta raggiunto l’obiettivo e saldati i debiti di viaggio, queste donne tornano nel loro Paese.
Come spiega Suor Eugenia Bonetti nel libro di Isoke Aikpitanyi “500 storie vere sulla tratta delle ragazze africane in Italia” (Materiali, 2011) il 10-15% di tutte le ragazze vittime di tratta risulta HIV sieropositiva. Alla luce di questi dati non stupisce che Pino Arlacchi, ex direttore dell’Unodc, abbia paragonato l’attuale traffico di esseri umani alla tratta degli schiavi africani dei secoli scorsi negli Stati Uniti, soprattutto considerando che quest’ultima, secondo Eurojust (organismo ha causato, in 400 anni, circa 11,5 milioni di morti, mentre la tratta a scopo prostituzionale avrebbe provocato, in un solo decennio e nel solo sud-est asiatico, circa 33milioni di vittime.
La scia di sangue e violenza che questo mercato trascina con sé non si ferma sui corpi delle ragazze ma si ricicla in continuazione, alimentando tutti i settori della criminalità. Secondo Carchedi, il denaro che le organizzazioni che gestiscono lo sfruttamento acquisiscono dalla prostituzione forzata viene re-investito nella droga pesante in modo da far aumentare in modo esponenziale il capitale iniziale. Dalla droga si passa poi al traffico di armi e metalli preziosi, arrivando a guadagni enormi, ovviamente tutti illegali e illeciti. Calcolando che nel nostro Paese siano 25mila le persone coinvolte coercitivamente nei circuiti prostituzionali di strada (escludendo quindi quelle che esercitano in case e appartamenti) e moltiplicando questa cifra per 5 sere di esercizio imposto ogni settimana per una media di circa 150 euro guadagnati per sera, si conclude che il solo traffico su strada crei una ricchezza di circa 900 milioli di euro l’anno. Il costo della vendita al minuto di cocaina/eroina pura è di circa 60 euro al grammo, e la stessa quantità, tagliata e rivenduta, può fruttare fino a 50 volte tanto: questi 900 milioni, reinvestiti in droga, secondo lo studio frutterebbero insomma alla criminalità organizzata circa 135 miliardi di euro l’anno. Una cifra che, al confronto dei circa 7-10 milioni di euro che fino a qualche tempo fa venivano spesi dal Dipartimento per le Pari Opportunità per la protezione sociale delle vittime di tratta, è davvero irrisoria.
Per fortuna, qualcosa sta cambiando, e prevalentemente grazie alla buona volontà delle organizzazioni di volontariato e dei servizi che operano nel sociale. Secondo i dati Unodc e Icmpd, in Europa, i Paesi che assistono il maggior numero di vittime di tratta sono, nell’ordine, Italia, Spagna, Romania, Francia e Germania (l’Italia registra dati due volte superiori alla Spagna e tre volte superiori agli altri Paesi): questo non solo perché da noi arrivano moltissime vittime di tratta ma anche perché i nostri servizi territoriali sono particolarmente efficienti nell’intercettare e prendere in carico quelle che intendono rompere l’assoggettamento schiavistico, grazie anche a norme di protezione sociale considerate da almeno un decennio altamente innovative, non solo a livello europeo ma internazionale. E non è tutto.
Accanto a organizzazioni come Befree, On the Road, Parsec e alle tantissime associazioni che in tutta Italia si muovono per aiutare le vittime di sfruttamento, fioriscono progetti importanti e innovativi come La ragazza di Benin City, che affronta la problematica delle ragazze africane che giungono in Italia in condizione di schiavitù lavorando con le organizzazioni del volontariato e con istituzioni, sensibilizzando i clienti ad avere un comportamento responsabile e aiutandoli a superare il loro stesso disagio con l’apporto di gruppi spontanei di auto-mutuo aiuto, e proponendo iniziative di coinvolgimento dell’opinione pubblica. Il progetto, fondato da Isoke Aikpitanyi, ex vittima di tratta, e dal suo compagno Claudio Magnabosco, mentre affida l’accoglienza delle vittime della tratta ad operatrici pari con modalità autogestite e autofinanziate, invita ex clienti, famiglie e società civile ad adottare a distanza le ragazze trafficate, finanziandone, in modo reciprocamente anonimo, il percorso di recupero, partendo dal presupposto che se non si coinvolgono tutti gli attori, dalle vittime stesse alle ex vittime, ai clienti, alle operatrici sociali, alle istituzioni, il fenomeno non verrà mai né compreso, né debellato.
A Palermo, di recente, sono state uccise due nigeriane, e una terza è stata massacrata di botte; la società civile e alcune associazioni hanno creato un comitato antitratta, molto attivo, all’interno del quale opera con coraggio padre Vivian Wiwoloku, pastore valdese, nigeriano, che ha sostenuto finora centinia di ragazze raccogliendole in quello che è il Centro PellegrIno della Terra, dove si trovano vittime ed ex vittime. Le ragazze, dopo la nascita del coordinamento, sono state minacciate, e il pastore, recatosi in Nigeria per salutare i familiari e perfezionare rapporti che consentano di frenare le partenze di ragazze verso l’Europa, lì ha subìto un attento, e a Palermo è oggetto di continue minacce. Nonostante tutto, la battaglia va avanti. “Il problema non è la prostituzione, ma la tratta: prostituirsi è solo una delle cose che sono imposte alle vittime della tratta – spiega Isoke – il comitato ha protestato perché in Sicilia i giornali continuano a definire le due donne uccise “prostitute”, mentre invece si tratta di vittime dello sfruttamento, quindi tutt’al più “prostituite”. Affrontare la questione delle nuove schiave cominciando a usare le parole giuste, può essere, un buon punto di partenza per tutti.
(essevierre)