Avere un figlio è sicuramente una risorsa, sia dal punto di vista umano che sociale ma, per una donna che lavora o che sta cercando un lavoro, può trasformarsi in un handicap.
“È evidente – spiega Fernando Cecchini, responsabile dello Sportello Disagio Lavorativo/Mobbing INAS CISL – che, di fronte a una donna incinta, il possibile datore di lavoro sarà convinto della non completa disponibilità della lavoratrice, che potrebbe essere distratta da problemi legati al bambino: malattia, affidamento, assenza di servizi sociali alternativi. Dal momento che la donna comincia la maternità, inizia a contare meno su di lei e questo rappresenta un ostacolo anche nel caso di assunzione di donne sposate ma avanti nell’età e senza figli, perché il datore si aspetta comunque una maternità che prima o poi arriverà”.
La discriminazione sul lavoro dunque, per le donne che restano incinta o che hanno in mente di farsi una famiglia, è dietro l’angolo. La situazione tipica è quella in cui la lavoratrice comincia a esser messa da parte fino a perdere la professionalità acquisita e finendo col fare lavori sempre più marginali. E cosa accade, alle lavoratrici in gravidanza, al rientro dopo il parto?
“La donna – continua Cecchini – non trova più il suo posto di lavoro precedente: se non può essere licenziata, le si affidano lavori di bassa professionalità e generici, dal centralino alla portineria alle fotocopie alla tenuta dell’archivio. Contemporaneamente, la si invita a dimettersi, magari con piccole offerte di denaro, proposta che diventa sempre più minacciosa se ella non accetta, sino al verificarsi di vere e proprie azioni di mobbing da parte dei superiori, a cui, spesso, si aggiunge il contributo velenoso di qualche collega, desideroso di compiacere la direzione o animato da invidia o spirito di convenienza”.
I colleghi: altra nota dolente. Dinanzi alle più piccole difficoltà nel lavoro alcuni per invidia, gelosia o carrierismo, iniziano a mettere in cattiva luce la lavoratrice neomamma dinanzi ai superiori, rifiutando di fare lavori che spettano alla collega, accusandola di assenteismo e arrivando persino ad affermare che chi ha figli deve starsene a casa, “sino ai più squallidi dispetti, fatti sempre per invidia o convenienza. Non dimentichiamo l’ostilità di colleghe single o, per vari motivi, senza figli”, precisa Cecchini. “L’atteggiamento tipico del capo, invece – continua – è quello di chi sopporta una persona su cui non può contare, e il messaggio generalmente è chiaro: meglio farne a meno e che se ne vada”.
L’assenza di strutture dedicate, l’alto costo dei nidi privati, le difficoltà degli orari ufficio, le malattie bambino, fanno sì che per la donna spesso il fatto di avere un figlio rappresenti un dramma. “No, non è un paese per mamme – afferma Cecchini – : si parla molto dello stress come causa di numerose patologie, in particolare di quello da lavoro correlato, secondo il D. Lgs. 81/08. Ma quanti datori sono disposti, viste le evidenti difficoltà che una mamma incontra, a chiudere un occhio dinanzi a piccoli sconfinamenti sugli orari di lavoro, magari facendoli poi recuperare? Il problema della maternità sta tutto qui, nella rigidità delle regole che, inevitabilmente, porta all’allontanamento della lavoratrice”.
Il problema del “mobbing da maternità”, spiega Alessandra Menelao, responsabile dei centri di ascolto mobbing e stalking UIL, è che per dimostrarlo occorrono prove certe e questa certezza si riesce ad avere solo nel 3-4% dei casi in cui la donna denuncia la situazione. “Le altre trovano giustizia attraverso la mediazione: nel 75-80% dei casi le aziende scendono a patti con la lavoratrice, ma la trattativa è sempre una buona cosa, perché non ha costi e permette alla lavoratrice di ottenere velocemente quello che vuole”.
Secondo Mirna Pacchetti, presidente dell’associzione BusinessMum, dedicata alle mamme lavoratrici, dai 25 anni in su le donne, in Italia, sono addirittura considerate una potenziale “risorsa a perdere”. “Ho sentito racconti di molte discriminazioni in questi anni di vita dell’associazione: colloqui di lavoro nei quali, ancora prima d’indagare sulle tue competenze, si informano della tua situazione familiare e della tua volontà di avere figli, donne lasciate a casa quando annunciano in azienda di essere incinte, altre che subiscono mobbing per aver chiesto un part time e altre ancora che vengono messe arbitrariamente da parte e relegate a ruoli secondari perché ‘ora che sei madre hai altre priorità’. A me era stato detto che, se volevo avere figli, lo dovevo programmare con il mio capo”.
Declassamento o demansionamento camuffati da ristrutturazione, licenziamento (ufficialmente perché “c’è la crisi”) e anche mobbing più o meno pesante: queste le situazioni maggiormente diffuse. “In generale – continua Pacchetti – sono poche le aziende che non ti fanno sentire un’ingrata approfittatrice delle situazioni, come se avere figli fosse solo un pretesto per starsene a casa qualche mese. Certo, un genitore ha priorità diverse rispetto alle altre persone, perché ha dei doveri anche nei confronti dei propri figli, e quindi ha problemi a rimanere in ufficio fino alle otto di sera o a fare straordinari nel weekend. Ma questo non significa che non lavori abbastanza. In ogni caso, la madre verrà sempre vista come una persona non disponibile e che ha limitate possibilità di far carriera. E, da parte dei colleghi, come quella che con il suo atteggiamento obbliga gli altri a farsi carico del suo lavoro”.
Uno dei grossi problemi per le madri lavoratrici in Italia è legato, secondo Pacchetti, alla mancanza di capacità dei responsabili e delle persone che svolgono ruoli direttivi di far lavorare le persone per obiettivi. “Paradossalmente – spiega – se timbri il cartellino e fai 10 ore in ufficio, passandone 3 alla macchinetta del caffè, sei visto meglio di una persona che telelavora da casa e che si dà davvero da fare, magari lavorando anche la sera o nel weekend. E terrei a precisare che, solitamente, chi discrimina maggiormente sono i capi donna. L’Italia siamo noi. E le donne, spesso, a loro volta, madri, sono le prime a criticare e a discriminare le mamme che lavorano”.
Dal quadro descritto emerge dunque l’Italia come un Paese per donne vecchio stampo: che stanno al loro posto e pensano ad accudire la casa ed i figli. Certo non per mamme che lavorano perché, nella maggioranza dei casi, queste vengono costantemente discriminate e messe in difficoltà.
“Anche se il termine ‘danneggiare’ è forte – spiega Maria Cimarelli di Working Mothers Italy (WMI), associazione creata a sostegno delle mamme lavoratrici – non si discosta affatto dalla realtà: una professionista in Italia, dopo la maternità, spesso non viene più vista nello stesso modo. In un ambiente di lavoro a una mamma si chiede sempre ‘come sta il bimbo? che fa?’, a un papà questo capita rarissimamente. Il problema principale è la mancanza di sostegno organizzativo, interno ed esterno. Modelli poco flessibili sul lavoro o compagni meno presenti nel contesto familiare trasformano la gravidanza in un problema. Le colleghe non mamme, inoltre, quasi mai sostengono o capiscono la situazione, anzi: spesso si calano nell’atteggiamento del ‘io non potrei mai essere così’. Certo è che, fino a quando non ci sarà buona informazione sulla genitorialità e quel che comporta in una azienda, poco verrà risolto”.