di Teresa Giulietti
Prova costume. Pancia in dentro, petto in fuori. Di fianco. Un giro di collo per controllare il posteriore (detesto nominarlo lato B). Inutile negarlo, femministe e non, ci si cade un po’ tutte nella trappola.
E, lì, in quello specchio, con un solo sguardo viene rivelata la nostra imminente sorte. Incredulità. Smania. Rivalsa. Sacrifici da mostrare. O promesse non mantenute da celare. Il nostro giudice intransigente non ammette scuse (pigrizia, poco tempo a disposizione, ora c’è pure il Lockdown a cui dare la colpa).
Alla voce “costume da bagno” su Wikipedia si legge: Il costume da bagno è un particolare capo d’abbigliamento solitamente indossato per nuotare, praticare sport, acquatici, etc”.
Io preferisco di gran lunga la definizione che ne fa Erma Bombeck, scrittrice e umorista americana, ovvero: “La gente sceglie il costume da bagno con più cura di quanto ne metta per scegliersi un marito o una moglie. I criteri sono gli stessi. Trovare qualcosa che sia comodo da avere addosso. E che ti lasci abbastanza spazio per crescere”.
Va da sé che il costume da bagno, tanto quello femminile quanto quello maschile, sia andato di pari passo con l’emancipazione del senso del pudore e del ruolo che, nel primo caso, la donna si guadagna nella società.
Il costume da bagno non è affare moderno. Una delle prime testimonianze di quello che può considerarsi tale si trova nei mosaici risalenti al III secolo a.C. di Villa Romana del Casale a Piazza Armerina, in Sicilia. Le donne in bikini sono atlete intente a giocare a palla e a correre, non a mostrare avvenenza e tonicità sulla spiaggia.
La cura del corpo in epoca romana, e ancor più durante il periodo della Grecia antica, era pratica quotidiana, ma non era consuetudine balneare con indosso un costume. Questo tipo di indumento chiamato subligatula (da subligare, legare sotto) veniva utilizzato alle terme. Il reggiseno era una semplice fascia di stoffa che appiattiva le forme, il mamillare.
Per tutta l’antichità rimase poco diffusa la pratica della balneazione a mare, mentre era pratica diffusa recarsi negli stabilimenti termali per beneficiare delle acque minerali. In questo caso non ci si immergeva completamente nude ma si indossavano perizomi di lino o cotone e fasce sul seno spesso di cromie differenti e per le donne più ricche impreziositi da gioielli.
Medioevo e Rinascimento non introdussero cambiamenti significativi, nei luoghi più affollati ci si bagnava nelle acque infilate in caste vesti di lino o di cotone chiaro, un turbante sul capo per non bagnare i capelli.
Credenze molto diffuse, in bilico tra cialtroneria e pseudo medicina, secondo cui il contatto prolungato con l’acqua nuocesse alla salute, portarono ad un arresto del concetto di igiene e della realizzazione di capi che potessero essere indossati per la balneazione.
Fu a partire dalla seconda metà del Settecento, in Francia e Inghilterra, con la scoperta delle località balneari e di villeggiatura, che anche la moda del costume da bagno iniziò a vivere cambiamenti sempre più rapidi.
Nel 1761 fu installato sulla Senna uno stabilimento, i bagni di Poithevin, una lunga imbarcazione che offriva bagni naturali secondo le prescrizioni mediche e in quelle occasioni sfilavano mise ancora molto castranti. Abiti con corpetti e calzoni in tela spessa da marinaio, sovrapposti da una grande gonna che a contatto con l’acqua si gonfiava come un pallone, provocando ilarità tra i letterati del periodo.
Il primo abbigliamento da mare femminile può considerarsi un abito lungo fino alle ginocchia, simile a una camicia da notte, in spesso tessuto – quasi sempre di lana – per ovviare alla trasparenza.
Sotto questa veste le donne portavano busto e calzoni alla cavigliae scarpe. Cappelloni parasole e ombrelli. Una robetta tutt’altro che godibile secondo i parametri di oggi, e se pensiamo poi che le gonne avevano cuciti al loro interno dei pesi per evitare che si sollevassero, è facile immaginare quanta fatica dovesse comportare una salubre giornata al mare. Meglio rinunciare!
Inutile ricordare come senso del pudore e pelle esposta siano andati di pari passo.
In età Vittoriana il rigore morale dei costumi imponeva alle donne di immergersi in acqua avvolte da mantelli accollati, stratificate come cipolle, passeggiavano sul bagno asciuga e si immergevano non più su del ginocchio. Si raggiungeva la spiaggia attraverso grandi cabine provviste di ruote nelle quali ci si poteva cambiare.
Fu a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento che gli abiti da bagno, in flanella, si accorciarono di qualche centimetro con l’introduzione dei primi modelli “alla marinara” bianchi e blu, uno scollo rettangolare sul dorso. Sopra alle lunghe calze nere erano di rigore scarpine traforate per lasciare passare l’acqua, munite di lunghe stringhe da allacciare intorno alla caviglia.
Vi è un altro punto da considerare nella nostra dissertazione sul costume da bagno femminile. Fino agli anni ‘30 del Novecento, quando i medici scoprirono le proprietà benefiche di una esposizione al sole, non era considerato aristocratico abbronzarsi, la pelle doveva apparire candida, di porcellana. Proteggere il corpo da strati e strati di tessuto era un segno distintivo dell’aristocrazia, poiché le persone delle classi inferiori, lavorando all’aperto, assumevano un colorito più scuro.
Il Novecento è considerato il secolo della moda e dei grandi cambiamenti in ogni ambito della vita sociale. I costumi da bagno del primo Novecento erano ancora casti e coprenti ma audaci se paragonati a quelli del decennio precedente.
Diventò una consuetudine il soggiorno estivo al mare e fecero la loro comparsa i primi stabilimenti balneari. Rimini, Viareggio e il Lido di Venezia diventarono località famose. Per le classi più abbienti, a partire dal periodo della Belle Epoque, gli itinerari termali vennero preferiti al mare. E’ questa l’epoca di Salsomaggiore, Fiuggi, Montecatini, Aix-le-Bains e il bianco in tutte le sue varianti diventa il colore prescelto sia per la donna che per l’uomo, tanto da creare un immaginario collettivo legato al senso di bellezza e al lusso vacanziero.
Gli anni ’20, terminata la Grande Guerra, portarono con sé una ventata di euforia e di “giovanilismo” proveniente da Oltre Oceano che modificò l’immagine del vacanziero doc.
Per le signore costumi interi con pantaloncini lunghi appena sopra il ginocchio, per le più giovani modelli più succinti costituiti da vestiti stretti con gonnellini sotto il ginocchio o costumi da nuoto in jersey di lana, sfiancati e aderenti, da abbinare a shorts.
La donna “garçonne” rifiutò le costrizioni ottocentesche anche nell’abbigliamento. Culotte e schiena scoperta, il sole non era più visto come appannaggio delle classi povere, o come un nemico,ma come possibilità di salute, riscatto e divertimento.
Uno fra i progenitori del bikini venne ideato da un‘indiscussa icona di stile, Lady Mendl, quella che può essere considerata la prima interior designer della storia, ricercata da nobili e magnati per arredare le loro abitazioni.
Ospite assidua del Lido di Venezia, animatrice di salotti colti e amante della moda, era solita indossare in spiaggia una mutandina nera annodandovi sopra e sui fianchi due fazzoletti.
Sul finire degli anni ‘30 venne introdotto il primo tessuto elasticizzato grazie a produttori americani già famosi per la biancheria intima. La testimonial della Jantzen fu una giovanissima Marilyn Monroe. Dall’America approdò anche in Italia il costume intero che lasciava finalmente nude gambe e braccia: una rivoluzione.
In Italia Marta Abba, musa ispiratrice di Pirandello, fece scandalo a Castiglioncello indossando un due pezzi piuttosto castigato per i parametri di oggi, ma non per quelli del ventennio fascista.
L’abbronzatura diventò status symbol, anche perché soltanto i ricchi potevano permettersi vacanze al mare, il costume da bagno alla moda era quello in stile Hollywood sfoggiato dalle icone del cinema: prime fra tutte Greta Garbo in “La donna dai due volti” .
Nell’estate del 1946 il sarto francese Louis Réard lanciò un costume a due pezzi che lasciava scoperto l’ombelico, lo chiamò ‘bikini’ in riferimento ad una tragedia avvenuta poco prima del lancio dell’indumento. Gli americani che stavano testando le bombe a idrogeno le fecero esplodere nell’atollo Bikini, in Micronesia.
Cosa aveva inventato il sarto francese? In sostanza niente. Solo il nome. Il suo bikini non differiva troppo da quello dei mosaici dell’antica Roma.
Ovviamente, a diffondere a livello planetario il bikini ci pensarono le star del cinema, basti pensare al modello Vichy di Brigitte Bardot, o a quello di Ursula Andress nei panni della più sensuale Bond girl del cinema, color avorio, cintura bianca e fibbia d’oro.
Fu, però, un attrice nostrana a battere il record del costume più succinto di quegli anni, Marisa Allasio in “Poveri ma belli”.
Non tutti approvarono questi modelli, i benpensanti continuarono a ritenerlo oltraggioso del pudore e, infatti, le spiagge vennero pattugliate da carabinieri che, centimetro alla mano, appuravano che l’altezza del bikini fosse regolamentare. Non per questo le nuove generazioni, insofferenti al tabù della morale, smisero di indossarlo anche laddove venne vietato, preferendogli il costume intero.
Ma lentamente cambiarono i costumi e negli anni 60 il bikini imperversava. Brevettato un tessuto elastico, capace di asciugare velocemente senza diventare trasparente, il lycra, la liberazione sessuale andò ben oltre il (casto) bikini imponendo topless e in talune zone anche la moda del nudismo.
I favolosi anni ’60 portarono grandi cambiamenti nella musica, nel cinema e nella moda che spesso procedono tendendosi la mano. La nuova moda optical, i reggiseni imbottiti, gli slip allacciati sui fianchi, sensuali baby-dolls, costumi interi, fantasie a quadrettini lanciate dai bikini che Brigitte Bardot indossava a Saint Tropez.
La moda degli Hippies e dei figli dei fiori influenzò gli anni Settanta, che ancor di più vennero influenzati dalla rivoluzione studentesca e sessuale. I costumi si fecero più “liberi”, ridotti, i reggiseni a triangolo privi di quelle imbottiture che venivano viste dalle “giovani rivoluzionarie” imposizioni da cui prendere le distanze. Il Jeans pervase tutto, così come la zeppa in sughero.
E poi arrivarono gli scoppiettanti anni ’80, amati e contestati, parola d’ordine: mostrare fisico, muscoli, potere (anche quando non lo si ha) e marche. I costumi si sgambarono in maniera vertiginosa, per poterli indossare occorrevano sfinenti sedute di aerobica e diete ipocaloriche. Oli abbronzanti capaci di valorizzare bicipiti, pettorali e quadricipiti. Tinte fluo, decise, improbabili, i due pezzi in cromie differenti, il costume intero in stile Baywatch.
E sul finire del secolo, la moda degli anni Novanta risentì dell’influsso e delle aspettative di un nuovo secolo pronto a decollare. Archiviata la veemenza strutturale del decennio precedente, si lasciò spazio a linee, tessuti e tinte più naturali e a stili più minimalisti.
Anni 90. Tutto si mescola, stili diversi si fondono, la musica diventa motore di ispirazione: grunge, britpop, techno, new-rock… I costumi si personalizzano e gli stilisti accettano nuove sfide.
Nessuna regola impone più nulla. E così sarà per il nuovo secolo, gli anni 10 e i 20 del 2000. Ma questa parte della storia la conosciamo meglio.