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Orario di lavoro e pandemia, quali regole seguire

Una delle misure su cui è possibile intervenire per contenere i contagi sul lavoro è la modifica dell’orario di lavoro. Chiaramente stiamo parlando di quei casi in cui sia possibile adottare questa misure.

L’orario di lavoro come fattore di rischio non è un concetto nuovo nella normazione relativa alla sicurezza ed avremo modo di trattarne alcuni sui aspetti nel corso dell’articolo.Prendiamo spunto da un articolo presente sul sito della società Sicurya che riguarda proprio questo aspetto in relazione all’attuale emergenza Covid-19.

La normazione sull’orario di lavoro

Il tema dell’orario di lavoro rappresenta sicuramente uno di quegli aspetti più importanti e dibattuti nella dialettica sul lavoro. L’esigenza è quella di bilanciare e commisurare, nel corso della giornata, degli adeguati spazi da dedicare alle proprie attività. Mentre altri, invece, da destinare all’attività lavorativa.

In questo aspetto un ruolo rilevante è stato giocato dalle organizzazioni sindacali. Questi grazie alla loro vivace e ferma dialettica hanno da sempre rivendicato tempi adeguati di lavoro. Come dimenticare i primi slogan “8 – 8 – 8” che miravano a suddividere la giornata in tre fasce distinte. Da destinarsi rispettivamente all’attività lavorativa con una durata media delle prestazioni lavorative di 8 ore. Allo svago ed alla vita sociale per ulteriori 8 ed, infine, le restanti 8 ore di riposo giornaliero.

Anche l’UE è da sempre molto attenta a questo delicato tema. L’obiettivo è quello di ottenere una migliore distribuzione e flessibilità del tempo da dedicare al lavoro.

L’evoluzione nel tempo

La disciplina dell’orario di lavoro in Italia ha una storia lunga. La sua prima regolamentazione organica è rinvenibile nel Regio Decreto del 15 marzo 1923, n. 692. Questo prevedeva il limite massimo delle otto ore di lavoro al giorno o un tetto settimanale di quarantotto ore.

In seguito dunque si è lungamente discusso sulla questione relativa all’interpretazione della congiunzione “o” che discerneva il limite giornaliero da quello settimanale. Da tale interpretazione infatti dipendeva la definizione di lavoro “nomale” legale quale soglia oltre la quale bisogna fare ricorso al lavoro straordinario. Dunque da retribuirsi con le relative maggiorazioni.

Si è arrivati così fino agli anni ’60 con la disciplina dell’orario di lavoro rimasta pressoché immutata. In tale periodo il CNEL elaborò un progetto di legge presentato poi nel ’67. Tale progetto prevedeva il limite delle quarantacinque ore settimanali.

Si arriva così negli anni ’90 in cui interviene il vincolo comunitario di attuazione della direttiva 1993/104/CE il cui recepimento avverrà in maniera completa solo con il D.Lgs 66/2003.

Si arriva così al patto per il lavoro del 1996 ed al “Pacchetto Treu” con la Legge 196/97. Grazie a questa legge viene fissato il limite del normale orario di lavoro in 40 ore settimanali. Viene inoltre assegnato alla contrattazione collettiva la facoltà di stabilire una durata inferiore. Andando così ad abrogare il precedente limite di cui al regio decreto del 1923.

Il lavoro notturno

Una prima cosa importante da chiarire è che quando si parla di orario di lavoro notturno non si intende “semplicemente” il lavoro svolto di notte.

La norma di riferimento infatti indica una ben precisa fascia orario entro cui questo va collocato. Infatti è inquadrato come “lavoratore notturno” colui che lavora durante il cosiddetto periodo notturno.

Con “periodo notturno” si intende la fascia orari che va da mezzanotte fino alle 5 del mattino. Con la precisazione che, almeno tre ore della normale attività lavorativa del lavoratore devono svolgersi in questa fascia oraria per poter considerare il lavoro come “notturno”. Dalla definizione sono anche esclusi ad esempio i turni notturni svolti “una tantum“. Infatti la norma fissa anche un limite minimo di ripetitività della prestazione.

E’ molto importante definire con precisione e capire in quali casi si ricade in questa tipologia particolare di lavoro. Questo perché, in tal caso, scattano una serie di misure di sicurezza, ad hoc. Vi sono anche chiari riferimenti relativi alla retribuzione ed alla maturazione dei requisiti pensionistici.

Il divieto al lavoro notturno

Proprio per motivi di sicurezza vi sono tutta una serie di casi in cui il lavoro notturno è vietato, tra questi ad esempio alle donne gestanti o ai minori di 18 anni. Ancora, alle lavoratrici madri con prole di età inferiore a 3 anni, oppure al lavoratore padre in alternativa alla madre.

L’elenco non finisce qui, in questo sono ricompresi anche la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario fino al compimento del 12° anno di età del bambino. Nonché le lavoratrici o i lavoratori con a carico un soggetto che rientra tra quelli indicati dalla Legge 104.

Chiaramente la contrattazione collettiva cui sono demandati alcuni importanti aspetti di questa delicata tematica non può violare i limiti imposti dalla norma. Può però, al contrario, ampliarne la portata degli interessati con l’obiettivo di garantire il massimo livello di tutela.

Un altro aspetto molto importante è quello che riguarda la retribuzione. Per i lavoratori notturni infatti questa è più alta e l’importo preciso è fissato in modo diverso in funzione dei vari contratti collettivi.

Inoltre, dal momento che il lavoro notturno è considerato “usurante”. Questo vuol dire che chi lo svolge maturerà prima i requisiti minimi necessari per accedere alla pensione.

Lavoro notturno, la definizione e i chiarimenti dell’INL

In relazione al “periodo notturno” l’INL in una nota dello scorso 26 novembre riporta le indicazioni offerte dal D. Lgs. n. 66/2003 secondo cui:

  • Il “periodo notturno” è quel lasso di tempo di almeno sette ore consecutive nell’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino.
  • Si deve far riferimento all’orario di lavoro osservato secondo le indicazioni del contratto collettivo. Nonché del contratto individuale ai fini del conteggio delle ore.

Questi sono i due elementi da cui discende il chiarimento definitivo dell’Ispettorato. Ancora, la figura del lavoratore notturno nella norma viene indicata come:

  • Lavoratore che lavora durante il periodo notturno. Cioè da mezzanotte alle 5 del mattino. Per almeno tre ore corrispondenti al suo tempo di lavoro normale. Esclusi i turni notturni una tantum.
  • Lavoratore che impiega, nel corso del periodo notturno, almeno una parte del suo orario lavorativo secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. Ad esempio chi ha un turno che inizia e termina a cavallo della mezzanotte.

La norma specifica che, qualora manchi una disciplina collettiva. Si considera lavoratore notturno chi svolge per almeno tre ore un’attività lavorativa di notte. Ciò per un minimo di ottanta giorni lavorativi all’anno, limite minimo riproporzionato in caso di part-time.

Cosa fare in questi casi

Il lavoro notturno presenta delle peculiarità e dei rischi specifici. Proprio per questo, in questi casi, è necessaria una idoneità specifica da parte del medico competente. Il lavoro notturno infatti, alterando il naturale ritmo sonno veglia, può creare vari tipi di problematiche a lungo termine.

Dunque per svolgere questo tipo di lavoro è necessaria una sorveglianza sanitaria mirata. Chiaramente sarà poi premura del medico stabilire nel protocollo di sorveglianza sanitaria tutti i dettagli riguardo il tipo di accertamenti da svolgere e la relativa periodicità. Sebbene il legislatore prevede una periodicità almeno biennale.

Nel caso in cui si presentino criticità legate allo stato di salute del lavoratore. Il medico competente potrà prevederne la non idoneità al lavoro notturno. Dunque si procederà con l’adibire il lavoratore ad altra mansione diurna.

In questo tipo di situazione il principio di fondo dettato dalla norma è che i lavoratori che svolgono orario di lavoro notturno godano delle stesse condizioni di sicurezza di quelli diurni.

Il lavoro notturno può aggravare i rischi già presenti nel lavoro. Questo è il motivo per cui nel Documento di Valutazione dei Rischi deve essere valutato con attenzione questo specifico aspetto. Nonché i criteri e le misure per gestirlo adeguatamente e ridurli al minimo.

L’emergenza covid e l’orario di lavoro

Venendo ora alle misure previste dai protocolli di sicurezza per evitare i contagi di coronavirus sul lavoro c’è il riferimento al distanziamento interpersonale tra dipendenti e collaboratori.

Questo significa, per logica, che nello stesso spazio ci dovrebbero essere meno persone possibile. Di conseguenza ciò vuol dire che si devono adottare due possibili soluzioni. Incentivare lo smart working per chi può svolgere la propria attività da casa. In alternativa modificare gli orari di lavoro in modo da creare una sorta di turn over.

Se però il lavoro da casa viene già adottato in molte realtà aziendali senza grossi problemi laddove possibile. La seconda alternativa, quella cioè che tocca l’orario di lavoro, può generare qualche dubbio.

Le criticità, però, sono gestite proprio dai protocolli siglati da sindacati e imprenditori e dal documento tecnico dell’Inail. In pratica, si osserva la possibilità di articolare l’attività in maniera diversa attraverso orari differenziati e piani di turnazione.

Questo significa che il datore può apportare modifiche agli orari di lavoro per rispettare il numero massimo di presenze nei locali aziendali. Nonché per evitare possibili assembramenti durante le fasi di ingresso e uscita dalla sede aziendale.

Le indicazioni della giurisprudenza

Anche la giurisprudenza si è occupata di questo delicato tema. Già in precedenza e prima dell’avveno dell’attuale contesto pandemico si è avuto modo di trattare questi temi. Infatti, alcune sentenze hanno sottolineato la necessità di non trascurare la correttezza e la buona fede quando si decide in modo unilaterale di modificare un orario di lavoro.

In ciò occorre tener conto non solo delle necessità aziendali. Bensì anche di quelle dei dipendenti. Tuttavia, in questo caso, subentra la tutela della salute dei lavoratori e della collettività. Concetto questo che supera qualsiasi altro tipo di esigenza. Ed è proprio questo che estende i poteri del datore in materia.

Un discorso a parte merita invece la posizione del lavoratore part-time. In tal caso infatti non è possibile procedere in modo unilaterale con la variazione dell’orario. Questo perché il lavoratore potrebbe essere impegnato in un secondo lavoro nella restante parte della giornata. Sarà quindi necessario concordare ogni eventuale variazione.

Chiaramente tutto può essere ancora rivisto e ridiscusso con i sindacati e nel rispetto del contratto collettivo nazionale. Il ministero del lavoro ha già previsto la possibilità di lavoratori a domicilio salvo casi di forza maggiore o ove ciò non sia possibile.

Il rapporto di lavoro dunque, in tali ipotesi, può proseguire “a distanza” sempre nel rispetto dei periodi di riferimento e con una durata media delle prestazioni di lavoro come da contratto. In questo modo c’è uno strumento a disposizione del datore di lavoro per migliorare le condizioni di sicurezza sul lavoro.

L’obiettivo è quello di fronteggiare in modo adeguato la diffusione del coronavirus. A fronte di casi di forza maggiore le ore di lavoro a disposizione possono essere dunque gestite in modo diverso rispetto alla norma.

Lo smart working … l’evoluzione del concetto di orario di lavoro

Vi è stato anche un gran discutere in merito a modalità di lavoro quali il lavoro a distanza o lo smart working. L’attuazione di questo tipologia di lavoro è stata molto più attuata nel pubblico rispetto a quanto lo sia stata nel privato.

Altro aspetto che balza all’occhio è il fatto che, mediamente parlando, la busta paga di chi ha lavorato in smart working è stata più pesante di quelle dei colleghi in presenza. Questo è dovuto soprattutto al fatto che il numero di ore lavoratore è stato maggiore. Grazie a questa metodologia di lavoro la produttività aziendale non ha subito cali significativi ed, anzi, in alcuni comparti si è registrato un numero maggiore di ore lavorate.

Il lavoro da remoto è stato identificato dal Governo italiano come la principale misura da adottare per prevenire e contrastare la diffusione del COVID-19. Ciò anche all’interno dei luoghi di lavoro. L’obiettivo è stato quello di rendere possibile la prosecuzione delle attività lavorative. Nonché garantire ai
lavoratori e alle lavoratrici adeguati livelli di protezione per tutte quelle attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza.

Il lavoro da remoto è stato così indicato dal Governo come misura ordinaria di lavoro per le pubbliche amministrazioni. Nonché fortemente raccomandata ai datori di lavoro privati. Persino le attività sospese possono essere svolte se in modalità di lavoro da remoto.

La disciplina di settore

La normativa di riferimento per questo “nuovo” tipo di lavoro è indicata nella legge n. 81 del 2017. Nello specifico agli artt. da 18 a 23. A questa si rifanno poi le varie normative emergenziali contenute in diversi atti normativi che si sono susseguiti nel tempo. In particolare è possibile fare riferimento al dl n. 6/2020 ed al dl 18/2020. Nonché al protocollo condiviso dello scorso 24 aprile.

Chiaramente non è possibile ricorrere a questa modalità lavorativa per tutti i settori produttivi. Vi sono infatti dei lavori che necessariamente prevedono la presenza fisica del lavoratore sul posto. Tuttavia sicuramente ha rappresentato e continua a rappresentare un’ottima misura di sicurezza particolarmente efficace per garantire le misure anti contagio Covid-19.

Gli insegnamenti ricavati

Quella dello smart working in tempo di Covid-19 ha rappresentato sicuramente una esperienza di grande importanza. Lascia intravedere un futuro in cui questo tipo di lavoro sarà sempre più diffuso.

Nel 2019, cioè prima del Covid-19 lo smart working era un qualcosa che toccava circa 570mila lavoratori ed era già cresciuto di circa il 20% rispetto all’anno precedente. Soprattutto le grandi imprese erano già attive in questo settore mentre invece le piccole e microimprese restavano ancorate ancora ai canoni classici del lavoro.

Durante la fase di picco dell’emergenza si è rivelato essere una metodologia di lavoro largamente applicabile in tanti settori. Si è infatti arrivati a punte del 97% di grandi imprese, di cui il 94% nelle PA con un picco di circa 6,5 milioni di lavoratori coinvolti.

Certo, si è dovuto fare il conto con il “digital divide”, cioè il divario digitale presente ancora oggi in diverse aree del nostro Paese. Tuttavia si ritiene che l’esperienza fatta possa considerarsi positiva. Dunque possa rappresentare il seme per uno sviluppo sempre maggiore di questo tipo di lavoro.

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