di Teresa Giulietti
Chissà se la moda s’inventerà qualcosa per immunizzare la paura dal più temuto flagello dell’ultimo periodo; chessò, un outfit tutto corone e ghirlande gialle e rosse. Io me lo aspetto, così come mi aspetto che qualche rapper o trapper infili il covid 19 in qualche rima baciata.
In questi giorni tutto chiude a Parma, anche i negozi di moda. Ma le vetrine ce la raccontano a sprazzi, esponendo i nuovi must, le linee di tendenza, un arcobaleno di nuance primaverili, 50 sfumature di rosa in abiti, giacche e coprispalla, ma anche in calzoni e gonnelline: dal salmone, al pesca, al rosa antico, fino al rosa shocking Schiapparelli che fino a qualche annetto fa avrebbe fatto storcere il naso alle giovanissime.
E la tavolozza primavera-estate 2020 rinnova i toni pastello, più o meno come ogni anno: dal celeste carta da zucchero, al grigio perla, con le varianti del panna, della nocciola e del cocco e ancora il rispolveratissimo, sciccosissimo, verde Tiffany; da almeno tre anni fisso nelle palette modaiole, l’unico colore capace di farci sentire un po’ tutte Audrey Hepburn. C’è anche voglia di safari in giro, voglia di viaggi lontani e avventurosi raccontati dai marroni, dagli ocra e dai gialli in tutte le declinazioni; colori che sanno di terra e di sole mischiati insieme.
Parma segue la moda? Direi di sì. Esiste una ‘moda parmigiana’? Direi di no. Non può esistere, siamo tutti esposti al contagio, in ogni senso. Così come non esiste una moda milanese. Una moda romana. Una moda napoletana. Una moda Siciliana. Queste distinzioni non hanno più ragione di esistere.
Forse esiste una moda italiana? Non del tutto, ma si potrebbe avanzare un’ipotesi. Non è tanto l’ultima tendenza (classic blue, fiocchi e pizzi, safari, new romantic, etc.), bensì come le diverse tendenze vengono abbinate tra loro, come un colore che va di moda si abbina a un colore che non va più di moda (e non lo sarà mai, brutto anatroccolo che non sei altro! Tiè!); o come un particolare tacco viene indossato, sfoggiando un incedere elegante o un grottesco avanzare claudicante.
La discriminante sta nel personale buon gusto. Ecco, l’abbiamo nominato; ma che cos’è questo buon gusto, questo senso criticoche, fino a poco tempo fa, caratterizzava gli italiani, figli della moda bella, dell’arte alta, del senso estetico insegnatoci dai maestri dello stile?
A chi ci si può riferire, oggi? A chi dovremmo dare ascolto? Alla Ferragni? O a Enzo Miccio? A Carla Gozzi? O a Giovanni Ciacci? Sono davvero questi i nuovi Leonardo da Vinci, Paul Poiret, Elsa Schiapparelli, Coco Chanel, Giorgio Armani, dell’età contemporanea?
Lancio una prima opzione in merito a cosa sia – per me – il senso critico. La capacità, una volta ultimata la vestizione (outfit al completo) di guardarsi allo specchio e di giudicarsi con la cinica freddezza di un ritrattista di Montmartre. Di una Signorina Rottermeier della buona grafia. Di un chimico che dosa le parti per trovare gli equilibri giusti.
Specchio specchio delle mie brame chi è la… Alt! Prudenza. Obiettività. Cinismo = Autocritica.
Non è che in nome di un ego smisurato, di una mamma che ci ha cresciute/i a suon di “tu sei la più bella del reame” ci si possa mettere addosso qualsiasi bizzarria.
Confucio (guarda chi mi è toccato tirare in ballo) diceva “Saggezza e buon senso si ottengono in tre modi: primo, con la riflessione, che è la cosa più nobile. Secondo, attraverso l’imitazione, che è la cosa più semplice. Terzo, con l’esperienza, che è la cosa più amara di tutte.”
Riflettete prima di uscire per la strada. Imitate le icone vere, non quelle che durano come un mangiatore di agnelli in una tavolata di vegani. E, soprattutto: fate esperienza, sbagliate, ravvedetevi, sondate.
Marcel Duchamp, il padre del dadaismo la pensava diversamente, ma da lui ce lo si poteva aspettare “Il grande nemico dell’arte è il buongusto”. Per il buon Marcel l’arte era uno strumento, non certamente un punto di arrivo; un mezzo creativo e dissacrante per indagare, trasgredire le regole. Osare.
Anche Picasso lo diceva “il buon gusto è il peggior nemico della creatività”. Vale anche per la moda? Del resto, la moda ha rubato parecchio dall’arte, fin dall’antichità classica.
Anche la moda può essere considerata un mezzo e non un fine, una lente d’ingrandimento che indaga gusti e tendenze della gente, etc etc; ma c’è una differenza sopra cui non è possibile soprassedere: la moda noi ce la portiamo addosso, il water di Duchamp no!
Vero è che il buon gusto non lo si può comprare. Non costa niente ma nessuno ce lo potrebbe vendere se noi non fossimo pronti a riconoscerlo. E, allora, non ci resta che seguire i modelli di buon gusto, quelli riconosciuti ufficialmente, mai tramontati, eterni. Faccio riferimento a tutti quei capi, quegli stili, che parecchi pseudo stilisti hanno cercato di stravolgere, dissacrare, bandiretalvolta, ma che sono sempre riusciti a resuscitare e a ritornare in auge.
Il successo raggiunto in poco tempo, solitamente dura poco tempo. Dietro a un grande maestro di stile, per esempio della moda, c’è sempre tanta preparazione, tanto impegno, devozione al proprio lavoro, curiosità per quello che è avvenuto prima, e una visione allargata che abbraccia altri settori, anche quelli che paiono esulare da quello più circoscritto della moda: la musica, la letteratura, l’arte, l’ecologia. Difficilmente il buon gusto nasce da un unico guizzo (una scoreggina creativa) o da un colpo di glutei, seppur molto tonici.
“Impara l’arte e mettila da parte” che tradotto in soldoni significa: prima impara le regole di base, poi mettile in discussione, stravolgile, ma poco per volta, senza lasciarti prendere la mano da troppa intraprendenza, che è un attimo cadere dalle zeppe alte 20 centimetri e slogarsi una caviglia, essere scambiata per Peter il pastorello di Heidi a furia di arrotolare i pantaloni, inciampare nelle orribili ciabatte pelose che nemmeno nonna Abelarda sotto tortura accetterebbe di indossare. E’ un attimo soffocare in un paio di jeans a vita alta di due taglie in meno, o in una gorgiera neobarocca. E’ un attimino rischiare di essere scambiata per una venditrice di tappeti a furia di ammassare copri spalla, giacche,cappotti, gonne sui pantaloni, seguendo il nuovo stile Layering, il vestirsi a strati, che così è impossibile non azzeccarne almeno uno.
Quando si sceglie il proprio stile sarebbe buona cosa non perseguire il marchio a tutti i costi (logomania) ma la linea, ovvero la coerenza tra linea del vestito e linea del proprio corpo.
Nell’abito ci si deve sentire a proprio agio, ci si deve riconoscere; mai provare senso di vergogna, mai sentirsi incoerenti con se stessi, mai andare contro il proprio pudore; ecco, quello è un’ottima cartina tornasole che ci avverte prima che sia troppo tardi: Alt, baby! Non superare il limite! Burrone in agguato!
Se non ci sentiamo bene in quel vestito, con quell’acconciatura, se abbiamo continuamente bisogno di approvazioni esterne, se fatichiamo a riconoscerci allo specchio, significa che non è quello il nostro stile. E’ proprio vero che un abito è una seconda pelle, così come è vero che noi non dobbiamo servire l’abito (la moda) ma la moda, semmai, al pari di un qualsiasi strumento impiegabile nella società, potrà aiutarci a sentirci meglio con noi stessi.
Spesso il buon gusto manca totalmente agli indecisi, a chi non ha fiducia in se stesso, e allora scimmiotta gli altri, senza domandarsi se quel capo potrà donargli, se quel paio di pantaloni evidenzieranno i difetti o li saprà mitigare.
I modelli buoni sono fondamentali, come punti di partenza e non necessariamente di arrivo. Intento, i modelli riconosciuti e riconoscibili, e perché no? anche quelli che ci piacciono di più (e con questa mia ultima considerazione che il Dio del Buon Gusto me la mandi buona, incrocio le dita sperando che i tuoi modelli di riferimento non siano Rihanna, Elettra Lamborghini, Sandra Milo e magari per gli uomini il tronista-doc tatuato in ogni emisfero, o Roberto D’Agostino.
Esiste un Galateo della moda?
Qualità non quantità. Meglio un solo capo di buona qualità che indossarne tanti realizzati con materiali scadenti. Meglio un paio di jeans con una bella camicia di un buon cotone, che un abito alla moda di nylon che inquina la terra e t’infiamma la pelle. Con la camicia bianca non si può mai sbagliare, da abbinare con qualcosa di più stravagante.
Meglio una bella collana, anche artigianale, che tante bruttine. Meglio un solo accessorio di buona manifattura che ricoprirsi a mo’ Madonna di Loreto con tanti ninnoli ripescati qua e là.
Poi, se si vuole osare, perfetto: si osi. Ma bisogna saperlo fare, il rischio senò è quello di apparire una Valeria Marini in una scuola per educande.
Diceva Micol Fontana, una delle tre grandi sorelle modiste: “lo stile è l’espressione della persona, è ciò che ognuno ha dentro e che deve trasparire anche dai vestiti”. Inutile fare le hard-aggressive se nella vita non lo si è affatto e ci si sente a disagio sfoggiando teschi e croci, pelle o simil pelle, scarpe a punta, zeppe e minigonne; inutile e sciocco quando si sognano paperine e abitini in stile ‘Quella casa nella prateria’.