Quattro nuove “Pietre d’inciampo” verranno collocate nella giornata di sabato 11 gennaio, in alcuni punti della città.
Le “Pietre d’inciampo” sono piccoli sanpietrini in ottone sistemati in modo da sporgere dall’asfalto e segnano i luoghi dove abitavano o lavoravano (dove sono state arrestate o da dove sono state deportate) le vittime della persecuzione nazifascista.
L’espressione “inciampo” va intesa non solo in senso fisico, ma anche visivo e mentale. Le “Pietre d’inciampo” sono state pensate per far sostaree riflettere chi passa e si imbatte, anche casualmente, nell’opera. Ad oggi, ne sono state collocate 30 in città.
IL progetto delle Pietre d’Inciampo nasce da un’idea dell’artista tedesco Gunter Demnig. A Parma è portato avanti a cura del Comune di Parma in collaborazione con ISREC Parma, con la Comunità Ebraica di Parma e con A.N.P.I., ANED, ANPPIA, A.L.P.I. e ANPC.
L’appuntamento è per sabato 11 gennaio, a partire dalle 11, con la posa di nuove quattro “Pietre d’inciampo” dedicate a Gino Ravanetti, Augusto Olivieri, Gino Amadasi, a Renzo Ildebrando Bocchi.
La posa delle pietre avverrà secondo il seguente percorso:
ore 11.00 posa della pietra a Gino Ravanetti (via Emilia est 54), Internato militare italiano
ore 11.20 posa della pietra a Augusto Olivieri (Viale Bottego 10), antifascista
ore 11.45 posa della pietra a Gino Amadasi (via XX Marzo 11), Internato militare italiano
ore 12.00 posa della pietra a Renzo Ildebrando Bocchi (via Bixio 64), partigiano. In concomitanza alla posa della pietra delle 12.00 è prevista la cerimonia pubblica con la presenza delle autorità. A rappresentare il Comune di Parma sarà l’Assessora alla Partecipazione e Diritti dei Cittadini, Nicoletta Paci.
Le Pietre d’inciampo nascono dall’idea dell’artista berlinese Gunter Demnig che ha dato vita al monumento creato dal basso, più diffuso a livello europeo. Dagli anni Novanta, in Europa, sono state posate più di 71.000 Pietre in 1.200 località: ogni pietra corrisponde a una vittima. Il progetto consiste nell’incorporare, nel selciato stradale della città, davanti alle ultime abitazioni delle vittime di deportazioni, piccoli blocchi in pietra ricoperti con una piastra di ottone su cui sono incisi il nome della persona, l’anno di nascita, la data, e l’eventuale luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta.
Gino Ravanetti
Nato a Felino il 2 giugno 1910. Sposato con Caterina Graiani, soldato del 3° Reggimento artiglieria, batteria addestramento, fu catturato l’8 settembre 1943 a Bologna e internato in Germania, nello Stalag XI-B a Fallingbostel. Qui, il 20 marzo 1945, fu fucilato dai tedeschi per rappresaglia e sepolto in una fossa comune. Di lui resta una cartolina inviata dal campo alla moglie il 27 aprile 1944:
“Carissima Rina, sono a te con questa mia, spero sempre ti trovi in buona salute e così finora ne segue la mia. Ieri ti ho spedito un buono di un pacco, spero sempre che vai bene con la casa. Giuliano cosa fa? Baciamelo tanto, ricevi tanti bacioni e saluti a tutti! Sempre tuo” .
Gino Amadasi
Nato a Parma il 24 luglio 1909, di professione impiegato presso il Comune. Sposato con Carmen Ghidini, soldato del 3° Reggimento artiglieria, Divisione Fanteria, fu catturato a Capo Papas (Grecia) il 9 settembre 1943. Internato presso lo Stalag III-D a Berlino, dove morì per malattia il 25 aprile 1945. L’unica lettera che conserviamo, inviata dal campo alla moglie il 7 aprile 1944, ci offre un piccolo scorcio sulla sua prigionia :
“La mia salute è sempre ottima. […] Dei pacchi tutt’ora non ho ricevuto nulla, spero nella prossima distribuzione. Nei moduli che riceverete scrivere farina gialla, perché voglio mangiare la polenta, sempre riso, le calze siano grosse perché abbiamo scarpe grosse. Il fumare non dimenticatelo, perché ne danno poco. Resto sempre in attesa di ricevere continuamente vostre notizie che tanto mi fanno piacere. Speriamo finisca presto e possiamo ricongiungerci insieme. Continuo sempre ad andare a lavorare in fabbrica come imballatore, però vi dico che sono diminuito di peso”.
Gino Ravanetti e Gino Amadasi furono “Internati militari italiani”: fra i circa 600.000 soldati italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943: dinanzi alla scelta se collaborare con il Reich tedesco e con la costituenda Repubblica sociale italiana o se restare prigioniero, scelsero la seconda, così come il 75% dei soldati finiti in mano tedesca. A questi ultimi però non fu assegnato lo status di “prigionieri di guerra” – che avrebbe concesso una serie di benefici sanciti dalla Convenzioni di Ginevra – bensì quello di (Imi) con la conseguenza di essere trattati peggio di tutti gli altri prigionieri militari, solo i sovietici subirono un trattamento peggiore.
Augusto Olivieri
Nato a Parma nel 1891. Figlio di Erminio, avvocato, radicale fervente, eletto deputato in Parlamento e poi divenuto Sindaco di Parma durante la Grande guerra, negli anni dal 1914 al 1919.
Augusto segue la strada professionale del padre: anche lui, dopo aver studiato al liceo classico (il “Romagnosi”), si era iscritto a Giurisprudenza con l’obiettivo di diventare avvocato. Nell’ottobre 1943, al principio della Repubblica di Salò, pare che i gruppi di potere parmigiani avessero chiesto all’avvocato di diventare Podestà della città, e che lui avesse rifiutato.
Forse proprio per questo rifiuto, nel marzo del 1944, Olivieri fu arrestato, insieme all’amico e collega Aldrevando Credali, mentre il terzo del gruppo inseguito dall’ordine d’arresto, Paolo Venturini, riuscì a fuggire. I tre erano avvocati, intellettuali, di area democratica e non timorosi di far emergere il loro credo politico. Ad Olivieri la scelta antifascista costò cara. Dopo l’arresto da parte della Sicherheitspolizei (SD-SIPO), la polizia di sicurezza tedesca, fu rinchiuso a Bologna, nelle carceri di San Giovanni in Monte. Di lì fu portato a Fossoli, e infine a Mauthausen.
Ma questo si seppe solo alla fine della guerra. Perché da Fossoli in avanti di lui si persero le tracce. Oggi, grazie alle testimonianze, sappiamo della sua deportazione. I compagni nel sottocampo di Gusen hanno raccontato che, non più giovanissimo, non riusciva più a lavorare: fu preso in carico dall’infermeria e poi da un gruppo di internati, che se ne occuparono ma non ci fu nulla da fare. Morì, provato e distrutto, 53enne, alla vigilia della Liberazione, il 28 aprile 1945.
Renzo Ildebrando Bocchi
Nato a Parma, in una casa in via Bixio, nell’Oltretorrente, il 1° settembre 1913. La sua famiglia era composta da artigiani cattolici, il padre Ricciotti, la madre Ada Mainardi e la sorella Luciana. S’iscrisse a Legge, ma la necessità di mantenersi lo costrinse ad abbandonare gli studi universitari e a trovare un lavoro: già attorno ai vent’anni cominciò a lavorare come commesso viaggiatore per conto di una casa di taglio e di moda. Ogni istante del suo tempo libero era dedicato alle sue passioni: la poesia e la scrittura. Bocchi fu corrispondente per diversi giornali – un’attività della quale si trova traccia nell’archivio don Giuseppe Cavalli, conservato presso l’Istituto storico della Resistenza.
Bocchi partecipò a tutte le fasi della vita nell’Italia monarchica e fascista. Nel lungo periodo tra il 1933 e il 1941, infatti, il giovane Renzo svolse il servizio militare di leva. Fu inviato anche in Africa settentrionale, sul fronte libico, dove sperimentò sofferenze e privazioni, fisiche e morali, e rimase ferito sul campo. Sull’esperienza libica avrebbe scritto una raccolta di poesie, «Dune Rosse».
Tuttavia Bocchi, essendo in ristrettezze economiche, fu costretto a rimandarne la pubblicazione, che alla fine non avvenne mai. «Dune Rosse» va aggiunta a diverse altre opere rimaste inedite, scritte non solo come poeta ma anche come prosatore, lirico e giornalista; mentre gli unici due lavori che Bocchi riuscì a pubblicare prima della guerra furono i volumi di versi «La Fiamma del cuore» (del 1938) e il «Pane del perdono» (uscito nel 1940).
Fu al ritorno dall’Africa che Bocchi cominciò ad avvicinarsi, in maniera sempre più manifesta, all’ambiente antifascista.
L’8 settembre 1943 si costituì a Parma un gruppo che provvide a dare una prima strutturazione al gruppo dei cattolici, e parallelamente un movimento partigiano che si muoveva sempre secondo i principi dell’etica cristiana. Di questo gruppo facevano parte, tra gli altri, Mario Bocchi, segretario dell’onorevole Giuseppe Micheli, che assunse anche la direzione generale del movimento; don Cavalli, come responsabile dell’Ufficio stampa e propaganda; Giovanni Vignali detto “Bellini”; e proprio Renzo Bocchi, nome di battaglia “Ruffini”.
Bocchi ricoprì anche ruoli che travalicavano l’ambito locale e provinciale: fu Capo del Servizio informazioni per l’Emilia-Romagna alle dipendenze del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, Capo dell’«Office of strategic service» presso il consolato USA a Lugano, in Svizzera; e ancora «collegatore militare» per Milano, Piacenza, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ferrara. Tutti ruoli di grande responsabilità, che lo portavano a viaggiare moltissimo, e ai quali lui era più che mai dedito.
Una di queste missioni, affidatagli dal CLNAI, gli costò l’arresto, la deportazione in un campo di sterminio e la vita. Il 13 maggio 1944 partì insieme alla staffetta Bruna Tizzoni; avrebbe dovuto incontrarsi in Svizzera con “Ruggero”, capo del Servizio Informazioni Alleato per l’Italia e finanziatore del movimento partigiano. Bocchi riuscì a portare a termine la missione, e per la foga di tornare a casa riuscì a prendere il posto di un’altra persona su un treno che l’avrebbe riportato a Parma quarantotto ore prima del previsto.
Varcata la frontiera elvetica, però, venne fermato e arrestato dalla polizia nazifascista. Con sé aveva i soldi dei partigiani, di cui riuscì a liberarsi, e bigliettini di carta con informazioni compromettenti che, secondo il racconto, lui masticò e trangugiò. Venne portato in carcere prima a Como, poi a San Vittore a Milano.
Amici e partigiani si adoperarono per liberarlo in tutti i modi, ma prima che quei tentativi potessero risolversi Bocchi fu caricato su un treno diretto verso il Brennero. Dopo una breve sosta a Bolzano, fu trasferito nel campo di Flossenburg, nella Selva Nera, dove trascorse le ultime settimane della sua vita. Venne trasferito a Hersbrück, un sottocampo dove lavorò duramente in una miniera, in condizioni fisiche e psicologiche devastanti.
Il 14 dicembre, quando ormai era debole e senza forze, venne riportato a Flossenburg, dove morì il 15 dicembre 1944.