Un reading musicale inedito, intitolato Agenda 2030, con riferimenti, citazioni e canzoni degli anni Settanta, intrecciati con la narrazione di episodi di riscatto sociale ed ecologico, per porre in luce come sia già tutto scritto: lo sprofondo in cui stiamo precipitando il pianeta e le contromisure positive che si possono innescare per migliorare la vita di tutti.
Neri Marcorè ha chiuso in bellezza il Festival dello Sviluppo Sostenibile di Parma, ieri sera all’Auditorium Paganini, con un “incontro tra amici” come ha definito il reading alternato a canzoni, accompagnato dal chitarrista Domenico Mariorenzi, “una chiacchierata a partire da una domanda che si fanno tutti: come arriveremo al 2030, se si sfrutta il pianeta per tirare fuori tutto il succo che ha?”
E la risposta, forse, è già nell’attacco con “Eppure il vento soffia ancora” di Pierangelo Bertoli, rinforzata a seguire da brani di Giorgio Gaber, Pier Paolo Pasolini e Fabrizio De Andrè, artisti, intellettuali e profondi conoscitori del popolo italiano, amati da Marcorè che, subito, vola oltreoceano per raccontare l’operato di Mockus, filosofo e sindaco di Bogotà dal 1995 al 2003 che mutò radicalmente la capitale colombiana introducendo, tra i mille esempi, “i mimi agli incroci stradali e sciogliendo il corpo di polizia stradale” riducendo della metà i pedoni morti da incidenti. Altro esempio dal film “Il sale della Terra” su Sebastiao Salgado (prodotto dalla parmigiana Solares, ndr) il grande fotografo che, tornando a casa, fa rinascere la sua fazenda inaridita reimpiantando alberi nella Mata Atlantica.
Marcorè si risparmia la battuta facile, non strappa la risata e affina sapientemente il monologo in un sorriso, citando “Oceania” della Disney e il docufilm “Domani” di Cyril Dion, per introdursi ad un alto momento poetico con la lettura del discorso del capo indiano Seattle, rivolto al grande capo bianco, il presidente degli USA a metà Ottocento, che voleva acquistare le terre indiane e confinarli in riserve. La voce di Marcorè porta a immaginare “la cresta rocciosa, il verde dei prati, l’acqua scintillante che scorre nei fiumi, l’odore del vento” mentre “l’uomo bianco non sembra far caso all’aria che respira”. Da qui al “Fiume Sand Creek” il passo è breve, che poi conduce alla riflessione di “mettersi nei panni degli altri, specie in questo periodo che cerchiamo il capro espiatorio” e, per farlo comprendere, niente di meglio che “Il sogno in due tempi” di Gaber chiuso con causticità: “se uno chiede aiuto gli arriva una legnata sui denti”. Poi è un volo dalle miniere di coltan di “re telefonino” in Congo al Pasolini dei “beni superflui in quantità enorme che rendono superflua la vita”, al ricordare che nell’Oceano Pacifico galleggia un’isola di plastica grande due volte e mezzo l’Italia, alla “saggezza della lumaca” che non costruisce un guscio sempre più grande perché il peso da sostenere la porterebbe alla morte, fino alla proposizione della sua originale “favola degli uomini del Duemila” nella quale dopo che il Polo si squagliò rimane solo una razza superiore, i topi. Dal fortunato tour “Quello che non ho” si allunga cantando nuovamente De Andrè.
C’è ancora tempo per un profetico Pasolini “la tv si è unita alla scuola in un’opera di diseducazione della gente, finirà che l’Italia non potrà essere governata”, “Infatti!” chiosa con ironia Marcorè prima di salutare con un calembour che mescola testi e musiche de “Il ragazzo della via Gluck” con “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”.
Intervista a Neri Marcorè, sullo spettacolo Agenda 2030, evento di chiusura del Festival Sviluppo Sostenibile di Parma.
Neri Marcorè, come nasce l’idea di questo reading?
“È una serie di riflessioni da condividere prendendo spunto da Gaber, De Andrè, Pasolini, Salgado. Partire dall’arte per parlare di ambiente e allargare il discorso alla cultura dell’esistenza. Credo non ci possa essere ecologia se non si parte dall’umanesimo, se non si parte dal rispetto reciproco tra persone, tra popoli. Soltanto facendole insieme, le cose, riusciremo a salvare il pianeta senza considerarci cittadini di serie A e serie B”.
Pasolini, Gaber sono un po’ dimenticati. Come mai la scelta di proporli?
“No, sono relativamente dimenticati. Ogni tanto si rievocano con grande piacere del pubblico. Ho fatto uno spettacolo dieci anni fa su Gaber; recentemente mettendo insieme Pasolini e De Andrè. Vedo che c’è voglia di ripescare un messaggio di corposità in quest’epoca evanescente di cose superficiali. E poi la capacità di parlare di archetipi legati all’animo umano, cosa ci corrompe, i pregiudizi con cui guardiamo alla realtà circostante. C’è chi li sa leggere anche adesso, ma non è un peccato ricordare questi personaggi. Sono dei punti di riferimento”.
La citazione di Salgado ne “Il sale della Terra” è un segno di speranza.
“Tutto quello che è cura e rispetto porta a un risultato. Ci sono tantissimi esempi in tutto il mondo. Ad esempio vi è un supermercato in Olanda che non fa utilizzo di plastica. Sono atteggiamenti virtuosi da fare insieme, che permettono di vedere l’ecologia come fonte di ricchezza”.
A proposito di ricchezza, è stato un momento di poesia alto, la lettura del discorso del capo indiano Seattle.
“È un po’ l’emblema dell’uomo che vive sulla Terra, pensando che non è la Terra che appartiene all’uomo ma l’uomo che appartiene alla Terra. Forse è impossibile coniugare quel messaggio con la vita quotidiana odierna, dove i fiori che profumano l’aria bisogna andarseli a cercare. Averli presenti questi riferimenti sono importanti, i valori sono quelli. C’era molta saggezza e noi non sempre siamo disponibili ad ascoltare il grillo parlante: come novelli Pinocchio ci fa più piacere divertirci, sfruttare le possibilità fino in fondo, pensando che poi ci regoleremo, pensiamo sempre di avere uno strumento per potercela cavare ma non credo sia così, magari rischiamo di accorgercene troppo tardi”.