Il 17 maggio sarà la giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia.
Come ricordava il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della scorsa Giornata Internazionale contro l’omofobia e la transfobia, “questa giornata offre l’occasione di riflettere sulla centralità della dignità umana e sul diritto di ogni persona di percorrere la vita senza subire discriminazioni”. Richiamando una famosa frase di un altro presidente, J. F. Kennedy, si potrebbe anche dire “non chiederti che cosa puoi fare per definire la normalità, chiediti che cosa puoi fare per fermare l’omofobia”.
L’omosessualità è da considerarsi uno dei tanti aspetti della sessualità umana, così come l’eterosessualità che, pur essendo più diffusa, non è la “norma”. Anche nel mondo animale l’omosessualità è sempre esistita proprio perché si tratta di una delle possibili varianti dell’orientamento sessuale. Da quando è stata derubricata dai manuali di psicopatologia, la ricerca in ambito psicologico e sociale ha iniziato a spostarsi sull’altro fronte, quello dell’omofobia: non ci si chiede più perché una persona è omosessuale, ma perché provi ostilità, paura, disgusto verso l’omosessualità.
Ci sono essenzialmente due dimensioni nell’omofobia, una psicologica e un’altra sociale. Quando il termine “omofobia” è stato coniato nel 1972 dallo psicologo americano Weinberg l’attenzione era più concentrata sugli aspetti psicologici, data appunto la natura di “fobia”. In breve è stato chiaro come, alla stregua della xenofobia, l’omofobia è fortemente determinata da fattori sociali, al pari del razzismo e dell’antisemitismo.
L’omofobo, infatti, come il razzista, non ritiene di avere un problema: i suoi pregiudizi si inseriscono in un sistema codificato di credenze diffuso nell’ambito in cui si muove e interagisce.
La descrizione più corretta dell’omofobia, dunque, è quella di fenomeno sociale che può essere individuato all’interno delle ideologie culturali e nelle relazioni inter-gruppo, dove i sentimenti omofobi, gli atti denigratori e i pensieri di disprezzo soggettivi sono indotti da pregiudizi sociali oltre che da fattori personali. Il timore di essere identificato o etichettato come omosessuale può essere un ulteriore fattore scatenante degli atteggiamenti omofobici. È infatti possibile che l’omofobo, esprimendo giudizi o manifestando atteggiamenti antiomosessuali, non solo esterni la propria opinione, ma contemporaneamente segnali al mondo circostante la sua distanza dalla categoria in questione. Vuole così ribadire l’identità eterosessuale che gli è stata assegnata fin dalla nascita, approvata dalla maggioranza della società.
L’omofobia, nella sua dimensione psicologica individuale, si riferisce alle rappresentazioni interne degli stereotipi riferiti alla identità sessuale, dei comportamenti non eterosessuali e dei pregiudizi riferiti alle credenze sulle persone omosessuali. Quando genera malessere può essere un segno di debolezza e fragilità ed è necessario affrontarla: tramite un lavoro profondo su se stessi può infatti essere modificata. L’omofobo, sia maschio che femmina, per recuperare benessere dovrebbe ricercare le motivazioni profonde che lo condizionano negativamente, nei processi di pensiero e di azione, verso le diverse possibili relazioni interpersonali. Se in difficoltà ad affrontare in modo autonomo tale stato di disagio o sofferenza andrebbe accompagnato a farlo con il supporto di uno psicologo, con la rassicurazione che la sua identità non può esserne compromessa.
In questo senso allargato, che comprende sia i processi psicologici individuali che gli elementi sociali e culturali, si potrebbe anche parlare di omonegatività per descrivere il fenomeno discriminatorio. Decenni di studi hanno dimostrato che non è l’omosessualità, ma l’omonegatività, che deve essere curata in quanto malattia socio-culturale antica e radicata: può essere combattuta e nel tempo debellata con l’integrazione, l’informazione, il rispetto e l’educazione sociale al valore delle diversità.