di Franco Pesci
Ti insegnerò a conoscere le Stelle.
Tu mi insegnerai la magia del Bosco?
Poi insieme, daccapo.
Il viaggio è un’avventura che, per essere vissuta appieno, ha bisogno di una spinta di solitudine, d’immersione in una sorta di pensosa contemplazione: l’incontro con mondi e culture diverse senza altre distrazioni o impedimenti è un’esperienza sempre più spesso cercata ma di difficile realizzazione. L’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti. Arrivando a un luogo nuovo il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere.
Trovarci qui, a Berceto, in un Piccolo Festival di Antropologia della Montagna, tra il 5 e 6 novembre 2016, è come fare incrociare la strada dello strutturalismo di Tristi Tropici di Claude Lévi-Strauss con quella dei formalisti russi allo studio delle fiabe (in apertura, di Marco Aime: Com’è bello camminar nel bosco mentre il lupo dorme) e del gioco sessuale, che poi è la vita che si perpetua: “Se tu ci metti il cerchietto, io ci metto la verga” (da un’antica favola medievale).
Ah noi, viaggiatori nostrani che ci spingemmo con sottobraccio Viaggio in Italia di Guido Piovene, libro nato sulle orme di un ciclo radiofonico degli anni 1954-1956, passando per il film omonimo di Roberto Rossellini, fino all’intramontabile e inattingibile – mirabile ricorso storico agli anni tra il 1813 e il 1817 – Wolfgang Goethe: ”I perché sono giochi che solo nelle imprevedibili domande dei bambini trovano la loro dimora. Per i grandi l’unica curiosità sensata è interrogarsi sul come”. Il come ce lo dice solo la storia di come è andata: la materia si aderge alla storia. Il paesaggio agrario (la terra e l’uomo) sembra non trovare più limiti di calma: nel dopoguerra un formicaio impazzito dell’Ap-pennino Start me Up (mai veramente tirato sù, se pennos, in celtico-ligure-apuano, sono le sommità delle alture: la perfezione starebbe sulla cima, ma bisogna arrivarci, purtroppo sta sulla soglia) si è riversato nelle grandi città o ritornato all’estero sulle orme dei padri, non potendo esperire nel farsi (in un certo modo, affrontare il mondo) quello che diceva l’illuminista Voltaire: “Laissez-moi cultiver mon jardin”.
Il movimento non fu riflesso di un ipotetico Piano Marshall (se ancor oggi lo si invoca per l’emigrazione che si ritiene subìta), ma fu immediato. D’altra parte ci aiuta la memoria bambina che più bina non si può, se ci vengono incontro ‘I Mostri d’aria’, libro di Giacomo Agnetti e Mario Ferraguti, tra gli organizzatori del Festival assieme a Maria Molinari, Anna Vittoria Sarli e Marta Mingucci, e tra quelli, rara avis, che scrivono libri per l’infanzia: ‘case degli spiriti’, dove ‘ci si sente’, ce n’erano dappertutto: Tu che passi da questa via saluta (intervento e contributo di Caterina Rapetti sulle Maestà), ed erano case fatiscenti e abbandonate prima che lo fosse il bosco: gli alberi sculture perfette (dell’artista della cosiddetta Arte Povera: Giuseppe Penone a Versailles, 2013).
Quando si parla dell’immaginazione (Archeologia e fonti orali con Filippo Olari), nel discorso non è più possibile parlare di uno specifico tema o impalcatura concettuale. Esiste ovviamente una densa rete di interessi di natura concettuale che plasma, justement, i principi curatoriali. E ce ne sono molti altri. Dalla volontà di investire nel tesoro delle conoscenze ‘native’ all’interesse in modelli pedagogici alternativi, dalle questioni di appartenenza territoriale all’attenzione verso storie di saccheggi e restituzioni: restaurare vuole dire restituire. La parola imago (da cui immaginazione) rinvia ad un artificioso crearsi immagine del reale, un umano celarsi e illudersi dietro un falso. In questo senso Kierkegaard parla del poeta (da “po’ e sia”, locuzione già ambigua sull’essere reale: rispetta almeno le parole della notte, perché quelle del giorno sono mandate in avanscoperta o all’inseguimento dell’azione) come di un ingannatore, come di un facitore di immagini fuori dalla realtà, di uno spacciatore di monete senza valore, ‘il più lontano da Dio’. Imago ha sensi di calco, di imitazione del reale e nell’accezione di apparizione non è qualcosa di opposto al vero, ma di dubbio sulla realtà: come la realtà appare. Disperazione di chi scrive è quella di doversi accontentare dell’immagine, come del resto ognuno di noi, nel vivere, ha il senso del vacuo al di là dell’atto stesso o dello stesso percepire. Aspirazione inesausta è quella di percepire e fare percepire il reale che si muove in lui e attorno a lui, di rivelare un mondo: l’uomo che si fa bosco (L’albero che suona la sega, di Mario Levis). Un pensiero a Maria Molinari, motore di questo Festival che ancora e ancora ci parla di quella frattura tra la storia e l’esperienza, tra la comunità e l’individuo, che sappiamo essere stata altamente gridata da quella che diciamo decadenza.
La forza antropologica (come sosteneva il latinista Concetto Marchesi: “Le storie raccontano cose che accadono, se mai, una volta sola; le favole narrano cose che accadono sempre”) non è altro che una testimonianza viva della nostra angoscia (un ambiente dimenticato è come un paese sommerso: in superficie qualcosa parla ancora delle antiche presenze, e non le lascia morire) contemporanea, di un dolore e di un sentimento panico del vivere che appartengono al nostro mondo e al nostro essere nel mondo. Un Festival ripetuto riporta in superficie la memoria d’ambiente: quali supporti la rendono possibile e quali la negano, per sostituire un’autentica cultura al sistematico oblìo.