di Carlo Lanna
Solo chi si ciba di romanzi e saghe dispotiche sapeva dell’arrivo in tv di The Handmaid’s Tale. E’ disponibile infatti sulla piattaforma on demand HULU, eterna rivale di Netflix, la prima stagione della serie ispirata all’omonimo racconto di Margaret Atwood.
Si torna a parlare di tematiche forti e quasi ancestrali dopo il successo di The Path, altra serie di HULU, rinnovata già per una terza stagione. Disponibile per ora solo il pubblico americano (ma presto o tardi lo show arriverà anche in Italia), The Handmaid’s Tale è un racconto sui generis, di grande impatto visivo ed emozionale, forse un po’ troppo lento e didascalico nella sua release finale, che rimane comunque un buon esempio di narrazione seriale, riuscendo a prendere tutti le caratteristiche migliori del romanzo di riferimento e modellarle nei confronti di un pilot intenso e disinibito.
Nel cast spunta sia Alexis Bledel (indimenticata per il suo ruolo in Una Mamma per Amica) che Elisabeth Moss (celebre per la comparsata in Mad Men); ma c’è anche spazio per Joseph Finnes ed un’iconica Yvonne Strahovski.
Gli Stati Uniti non esistono più, da quello che i protagonisti raccontano fugacemente, una guerra ha distrutto la società come ora la conosciamo. Dalle sue polveri è nata la Società di Gilead, che governa con un regime autarchico e misogino ed indottrina i propri sudditi con solidi valori cristiani, fortemente visionari ed a limite della follia. Offred è una delle poche donne non sterili rimaste, costretta a giacere ogni sera con il suo Comandante, con la speranza di poter mettere alla luce un bambino e salvare la razza umana. Nella stessa condizione vivono molte ragazze, costrette a vivere una vita miserabile e piena di stenti. Offred però non dimentica il suo passato e, nonostante il compagno sia stato ucciso dalla Società, cerca in tutti i modi di resistere a queste violenze, nella speranza di poter riabbracciare la sua figlioletta.
Al di là di alcuni latenti difetti di stile (il pilot ha una narrazione fin troppo lenta e discontinua), The Handmaid’s Tale rimane comunque una serie tv all’avanguardia. È un prodotto che tocca argomenti di vitale importanza sociale, come il misticismo religioso, la misoginia e la violenza sulle donne, rimane un racconto di pura fantasia (almeno nel suo incipit) e racchiude in se tutte le caratteristiche di una saga dispotica al passo con i tempi. Quindi anche se il romanzo è stato pubblicato ad inizio degli anni ’80, la storia in un certo qual modo, fotografa i disagi, i dubbi e le incertezze della modernità in cui viviamo. La violenza sulle donne, questa voglia di prevaricare sul sesso debole (che poi debole non è), l’intenzione di preservare i valori di una società civile, traspaiono nella narrazione con una veemenza mai vista prima; una scelta perfetta che si contestualizza con le stesse intenzioni dello show. The Handmaid’s Tale infatti ha un’atmosfera rarefatta, dialoghi ridotti all’osso, una scenografia opprimente e quasi ansiolitica, una colonna sonora che spolvera vecchie hit del passato, particolarità che appunto riescono a far emergere un substrato narrativo forte e dissacrante.
Convince poi Elizabeth Moss, che tratteggia un personaggio enigmatico e quasi privo di sentimenti, ma spicca anche Joseph Finnes, nel ruolo di un uomo forte, vigoroso ma allo stesso tempo debole e meschino.
Alla luce quindi dei tre episodi fino ad ora trasmessi, la serie convince a pieni voti; siamo del tutto convinti che, con il passar del tempo, la lentezza di alcune scene farà spazio all’azione più sfrenata e, la trama, riuscirà a regalare un degno colpo di scena che farà cadere il castello di carta costruito fra le mani della protagonista. Sicuramente un prodotto del genere si farà strada non solo fra il pubblico ma anche all’interno stesso del panorama televisivo di oggi.