di Francesca Devincenzi
Ad ogni cella il suo suono, ad ogni anfratto un lamento, una musica diversa. Suoni elettronici, voci dal passato, composizioni a pianoforte spingono il visitatore dentro una diversa lettura di ogni singola opera.
Siamo a Bergamo, ex carcere di Sant’Agata.
Qui Enrico Soresini, classe ’74, bergamasco, espone nazismo e morte, un viaggio dentro la testa del Fuhrer che attraversa il pigiama a righe, aggrovigliato in filo spinato, la riproduzione del cancello di Auschwits “Arbeit macht frei”, volti di dolore, intrisi di cicatrici cuciti con punti di graffatrice, svastiche, evocazioni ma non esaltazioni dell’epoca nazista.
Inferno, un viaggio dentro la testa che l’inferno vero lo ha creato in Europa, accompagnato da musiche spettrali che lo fanno rivivere per quelle celle, strette, anguste, con bagni decadenti, comuni tra una e l’altra.
E poi, le finestrelle strette strette nelle porte, le ringhiere alle finestre.
Anche se splende il sole, su Sant’Agata, perché ora non è più un carcere, e si può illuminare, fa brillare il cavo dell’impiccato, esposto sopra a un lavandino, la croce di tortura, i muri su cui ancora svettano le preghiere, scritte come un mantra tra un sospiro e l’altro, da chi in quelle stanza ha cercato l’ultimo sospiro.
E poi, lo spettacolo teatrale, che vede in scena Simone Rossi, autore dei testi, con una rielaborazione di alcuni passi del Mein Kampf di Adolf Hitler. L’attore interpreta, accompagnato dalle musiche composte ed eseguite live da Maria Zocchi, cinque personaggi diversi, cinque diverse interpretazioni vocali, stranianti e deliranti, dell’ideologia nazista.
ENRICO SORESINI CI RACCONTA LE SUE OPERE
di Viviana Duimio
Non e’ facile raccontare l’orrore, ci vuole coraggio a prendere in mano un pezzo di storia che pesa sulle coscienze e cercare di raccontarne l’emozione.
Enrico Saresini e’ l’artista bergamasco che ha allestito le sale di questa mostra della memoria per la parte di arte figurativa.
Il suo linguaggio materico e fortemente espressivo ben si presta al tema trattato e ne sottolinea l’intensità emotiva fino a percepirne l’urlo straziante nei suggestivi spazi dell’ex carcere che amplificano la drammaticità del racconto.
Abbiamo chiesto all’artista di raccontarci come e’ nata la mostra:
Abbiamo pensato ad un progetto integrato fra testi, musiche e immagini per rappresentare il dolore e la sofferenza di chi ha subito questo orrore.
Quando mi è’ stato chiesto di partecipare all’allestimento mi sono preso qualche mese di tempo per studiare ed entrare in quel maledetto periodo storico, per meglio sentire il dolore da raccontare.
Da sempre nelle mie opere colore e materia esprimono contrasti forti tra bellezza e violenza, tra infelicità e pace.
Il plexiglass mi ha permesso di accentuare lo spessore delle opere fino ad una tridimensionalità quasi inquietante che in questo caso è stata indispensabile per intensificare il racconto.
Spesso uso il corpo della donna come simbolo di bellezza per denunciare l’ipocrisia tra l’apparire e l’essere, tra sofferenza e sorriso come in opere come ‘Mastectomia’ in cui la perfezione formale contrasta con le cicatrici degli interventi subiti e il filo spinato che la imprigiona, ma in questo caso era difficile trovare il lato opposto della bruttezza umana, non c’era bellezza da intravedere ma solo follia, irrazionale e devastante follia.
Mi piace andare oltre quello che appare, vedere il dolore oltre forme perfette o bellezza dietro forme brutte come si può vedere in un mio quadro non esposto in questa mostra che rappresenta una donna con il corpo mutilato per l’asportazione di un tumore che a discapito dell’apparenza, attraverso il brutto, arriva al bello di una vita salvata.
Questa mostra mi ha dato molte soddisfazioni compresi i complimenti di un ex deportato che mi ha confessato di aver rivisto quel dolore per un attimo nelle mie opere e di tanti giovani che hanno colto il messaggio dell’orrore e spero possa servire anche per impedire alle nuove generazioni di commettere errori così abnormi.