di Francesco Gallina
Benvenuti all’ottavo appuntamento della rubrica Animali fantastici e dove trovarli nella mia Drogheria dell’Arte. Oggi ci diamo delle grandi arie con il… pavone.
Con il pavone, dunque, proseguiamo il nostro viaggio lungo le pareti esterne del Battistero di Parma, fra i bassorilievi di questa curiosa creazione scultorea che è lo Zooforo.
Essenza dell’ambiguità, il pavone racchiude in sé discordanti allegorie. Se per Plinio il Vecchio e per Sant’Agostino il pavone, con le sue carni immarcescibili, risorge ogni anno con nuove angeliche piume (simboleggiando così l’Incorruttibilità e l’Immortalità), secondo enciclopedisti medievali del calibro di Cecco d’Ascoli non solo la sua carne imputridisce, ma il pavone diventa uccello terribile, terribile come la sua voce, il suo collo serpentino e il suo veloce passo demoniaco. Da questo momento in poi, per scrittori e artisti, il pavone avrà doppia e inconciliabile accezione: o simbolo di Gloria e Resurrezione, o simbolo di Lussuria, Lascivia e Cupidigia. L’occhio impresso sul suo piumaggio rappresenterà l’occhio onniveggente di Dio o sarà espressione del malocchio.
Verrà il Barocco a riabilitare il pavone, le cui cento pupille incarnano il piacere dello spettacolo, lo spirito,l’arguzia e il concettismo. Il suo mito è narrato dal massimo esponente del Barocco italiano, Giovan Battista Marino, nell’Adone, che con le sue 5033 ottave dedicate a re Luigi XIII, è il poema più lungo della nostra letteratura. Ecco allora l’augel pomposo e vaneggiante evocare Argo, il mostro dai cento occhi, messo da Era (la Giunone romana) a guardia della bella Io, amata da Zeus, perché il dio non giacesse con lei. Ma quando Mercurio uccide Argo, Era ne riporta gli occhi sulla coda del pavone, che diventa l’animale a lei consacrato.
Di quest’augel pomposo e vaneggiante
(disse Venere allor) parla ciascuno.
Dicon ch’ei fu pastor, che’n tal sembiante
cangiò la forma e così crede alcuno
che la giovenca del’infido amante
a guardar con cent’occhi il pose Giuno
e che, quantunque a vigilar accorto,
fu da Mercurio addormentato e morto.
Contan che gli occhi, onde sen giva altero,
nele piume gli affisse ancor Giunone,
ed è voce vulgar che’l suo primiero
nomefuss’Argo, il qual fu poi Pavone.
Or dela cosa io vo’ narrarti il vero
diverso assai da questa opinione;
gli umani ingegni, quando più non sanno,
favole tali ad inventar si danno.
Era questi un garzon superbo e vano,
tutto d’ambizion colmo la mente,
cameriero d’Apollo e cortigiano,
che l’amò molto e’l favorì sovente.
Amor, ch’anch’egli è pien d’orgoglio insano,
ferigli il cor con aureo stral pungente,
facendoda’ begli occhi uscir la piaga
d’una donzella mia vezzosa e vaga.
Colomba detta fu questa donzella,
laqual veder ancor potrai qui forse,
che fu pur in augel mutata anch’ella,
ma per altra cagion questo l’occorse.
Pavon si nominò, Pavon s’appella
costui, ch’amando in folle audacia sorse.
Seben altro di lui dice la fama,
Pavonchiamossi ed or Pavon si chiama.
Oltre che di bei drappi e vestimenti
si dilettava assai per sua natura,
per farsi grato a lei ne’ suoi tormenti
s’abbellia, s’arricchia con maggior cura:
pompe, fogge, livree, fregi, ornamenti
variando ogni dì fuor di misura,
facea vedersi in sontuosa vesta
con gemme intorno e con piumaggi in testa.
Con tuttociò, da lei sempre negletto,
senza speme languia tra pene e doglie,
perché discorde l’un dal’altro petto
di qualità contraria avean le voglie.
Tutto era fasto e gloria il giovinetto
ne’ pensieri, negli atti e nele spoglie;
l’altra costumi avea dolci ed umili,
mansueti, piacevoli e gentili.
La servia, la seguia fuor di speranza
consospir caldi e con preghiere spesse;
e perché, come pien d’alta arroganza,
pensava di poter quanto volesse,
ragionandole un dì prese baldanza
di farle troppo prodighe promesse;
tutto l’offrì ciò che bramasse al mondo
dal sommo giro al baratro profondo.
“Poiché tanto (diss’ella) osi e presumi,
voglio accettar la tua cortese offerta,
e del foco, ond’avampi e ti consumi,
giovami di veder prova più certa.
Recami alquanti de’ celesti lumi,
se vuoi pur ch’ad amarti io mi converta;
se servigio vuoi far che mi contenti,
dele stelle del cielo aver convienti.
[…]
Perché crediam che sì si mostri adorno,
senon per allettar chi l’innamora
e per aprire ala beltà, che mille
fiamme gli aventa al cor, cento pupille?
FRANCESCO GALLINA ha 24 anni ed è pramzän dal säss.
Laureato in Lettere Classiche e Moderne, è critico letterario, docente, blogger, narratore e autore di articoli e saggi accademici su letteratura, poesia, filosofia e arti dello spettacolo.