di Giovanna Maggiori
La vecchiaia, dal punto di vista biologico dell’organismo, avviene a un tasso diverso per ognuno di noi e in età ancora giovane questa diversità di progressione è persino più evidente.
Il tempo passa per tutti allo stesso ritmo, ma gli anni trascorsi possono sembrare diversi: qualcuno ne dimostra di più, qualcun altro di meno. E ciò che dice la carta di identità a volte stona molto con quanto rivela l’apparenza. Detta con linguaggio scientifico: l’età biologica non sempre corrisponde a quella anagrafica.
Ma come si crea questo divario? Hanno cercato di scoprirlo gli scienziati della Duke University che hanno pubblicato i risultati di uno studio condotto su mille persone nate tra il 1972 e il ’73 a Dunedin in Nuova Zelanda e seguite fino ai 38 anni di età. Gli scienziati neozelandesi non sono certamente i primi a voler indagare a fondo i meccanismi dell’invecchiamento. Di fronte alla prospettiva di giungere nel 2050 a 400 milioni di ultraottantenni nel mondo, il triplo di quelli attuali, la medicina persegue da tempo un agognato obiettivo: prevenire i disturbi della terza età e scoprirne la causa per rallentare il più possibile i danni del tempo che passa.
Questa volta però l’approccio degli scienziati è diverso. La novità consiste nel campione scelto: uomini e donne, in salute, non ancora quarantenni. Di solito si tratta di anziani. Invece, sostengono gli autori dell’articolo, è fondamentale comprendere come i giovani diventano vecchi per individuare il prima possibile i problemi da risolvere. Alcuni giovani invecchiano prima di altri e a 38 anni hanno un’età biologica di una persona di 50, mentre i più fortunati possono sottrarre all’anagrafe anche dieci anni.
Gli studiosi, guidati dal ricercatore Daniel Belsky, hanno costruito una lista di 18 marcatori fisiologici di invecchiamento finalizzati a identificare un’età biologica, tra i quali la pressione sanguigna, il metabolismo, la funzione renale, polmonare ed epatica, il colesterolo, il sistema immunitario, la salute dei denti e la lunghezza dei telomeri (piccole porzioni di Dna che si trovano alla fine di ogni cromosoma e che sarebbero una sorta di orologio biologico poiché, in seguito alla riproduzione cellulare, la loro lunghezza si riduce progressivamente), oltre a riferirsi alle abilità di coordinamento, di equilibrio e cognitive.
La media del ritmo di invecchiamento osservato tra i mille volontari è stato di 1,2 anni ogni anno, ma nel campione osservato c’è anche chi alla fine dell’esperimento era deceduto, chi dimostrava circa 28 anni, chi 61 e chi non era invecchiato per nulla. Il passo successivo per i ricercatori è stato poi quello di incrociare i dati in loro possesso con le informazioni sullo stile di vita dei partecipanti allo studio, nel tentativo di capire chiaramente quale fattore (genetico o ambientale) fosse più significativo nel processo di invecchiamento o, al contrario, quale fattore fosse stato determinante nel mantenimento della gioventù. Perché, come rimarca Belsky, la traiettoria dell’invecchiamento deve essere studiata già da giovani.
“Quando si invecchia, aumenta progressivamente il rischio di tutti i tipi di malattie“, fa notare Belsky, aggiungendo che l’obiettivo della ricerca deve essere dunque quello di riuscire a intervenire sul processo di invecchiamento in sé, piuttosto che affrontare le singole patologie.
Secondo Niccolò Marchionni, direttore di Medicina geriatrica dell’ospedale Careggi di Firenze: “Non stupisce che anche precocemente si registrino tassi di invecchiamento differenti. La longevità è un bilancio tra geni e ambiente, intendendo questo rapporto come il modo in cui le abitudini di vita interagiscono con il patrimonio genetico. In questo senso va visto l’invecchiamento, sempre tenendo presente che il patrimonio genetico può essere modificato in corsa. L’invecchiamento è dunque un dono che ci dobbiamo conquistare”. La riflessione del professor Marchionni sullo studio è dunque la conferma che anche da giovani gli stili di vita e i geni influenzano l’età biologica.
E come gli esperti continuano a ribadire le abitudini di vita e di alimentazione hanno un ruolo determinante. “Basta pensare a uno studio pubblicato su Science nel 2009 – ricorda Marchionni – che si riferiva a un esperimento su un gruppo di macachi Rhesus di differenti famiglie. I macachi vennero divisi in due gruppi: al primo fu dato libero accesso al frigo, mentre il secondo gruppo fu sottoposto a uno stretto regime calorico. Venticinque anni dopo l’ 80% delle scimmie tenute a dieta era ancora in salute e metà di quelle mangione erano morte, mentre nel secondo gruppo si constatava una drastica riduzione di patologie legate al cuore e al metabolismo”. A conferma che anche negli uomini il segreto per invecchiare meglio è mangiare meno. Insomma come suggerisce Niccolò Marchionni “ci vorrebbero meno botox e meno cibo”.