di Giuseppe Marotta
Siamo a Chapecó, città non tanto conosciuta nel Mondo, che conta 180.000 abitanti circa. Non tanto più grande di Reggio Emilia, per rendere l’idea.
È una cittadina abbastanza importante per quanto riguarda l’economia del Brasile meridionale. È il 10 maggio del 1973, quando i soci dell’Atlético Chapecoense e quelli dell’Independente, decidono che per il bene del calcio della città, è meglio unirsi per concentrare le risorse in un’unica società; dalla fusione delle due, nasce così l’Associação Chapecoense de Futebol, semplicemente nota come Chapecoense.
La squadra è molto giovane, anche perché la maggioranza delle società calcistiche sono nate nei primi decenni del Novecento.
Non ci sono grandi disponibilità economiche, e nemmeno grandi obiettivi prefissati; molto più semplicemente, la filosofia è sempre stata quella del puntare sui giovani dello stato di Santa Catarina, per creare una squadra con una forte identità.
La Chapecoense nei primi anni di vita ha però fatto passi da gigante, e solo quattro anni dopo la fondazione,vince il Campionato del proprio Stato. Un anno dopo arriva la prima partecipazione alla Serie A brasiliana: sembra il preludio per l’ascesa di una società giovane, sana, che sa lavorare e sognare. Il calcio però, si sa,è fatto di cicli, e in poche stagioni la squadra torna nel gradino più basso della piramide calcistica brasiliana, la Serie D. A questi livelli, e soprattutto in uno stato con tante disparità e problemi economici come il Brasile, le piccole società fanno una grande fatica anche solo per sopravvivere e potersi iscrivere ad un campionato.
Il punto più basso viene toccato nel 2003, quando manca un niente per far si che la società sparisca; fortunatamente varie imprese locali decidono di contribuire con incrementi di capitale e fondi destinati alla gestione della Prima Squadra, e la Chapecoense salva così la pelle. La società latita ancora per un po’ nelle categorie minori, ma nel 2008 la svolta: viene ricostruito lo stadio, l’Arena Condà, con una capienza di 23mila posti. Non male. Questo è il presagio di un cammino, di un sogno, della dimostrazione che per ottenere una cosa, spesso basta solo volerla.
Ingrediente principale? La determinazione. Dal 2009 al 2014, succede l’impronosticabile; la squadra è protagonista di una sensazionale tripla promozione. È come se la Correggese in sole cinque stagioni, raggiungesse la Serie A. Il Carpi è stato protagonista di qualcosa di simile nelle ultime stagioni, ma sono casi davvero più unici che rari. Scriverlo è semplice, ma essere protagonisti di una tripla promozione consecutiva, è qualcosa di clamoroso. La prima stagione in Serie A termina con una salvezza tranquilla, e un buon piazzamento in Copa do Brasil, che permette alla società una storica prima partecipazione alla Copa Sudmericana, l’equivalente della nostra Europa League.
Il percorso termina con l’eliminazione ai quarti, contro il colosso River Plate; la “Chape” però in casa batte il River 2-1, e il risultato è storico, il più prestigioso mai ottenuto. Ma come nelle migliori favole, non finisce qui. In questa stagione la Chapecoense fa pure meglio: elimina prima la storica squadra dell’Independiente, e poi in semifinale il San Lorenzo, la squadra di Papa Francesco. Incredibile ma vero, è finale! In proporzione, sempre per rendere chiara l’idea, è come se il Carpi dopo aver scalato dalla Serie D alla Serie A, fosse arrivato a giocare la finale di Europa League contro una big europea. Che so, un Carpi-Manchester United. Impressionante. E così bello. Tutto questo è stato reso possibile da un mix di giovani e veterani, come capitan Cléber Santana, ex Atletico Madrid, da un tifo mai domo, da un mister, Caio Junior, voglioso di fare bene.
Senza fenomeni, senza la “samba” brasiliana di un Ronaldinho o un Kakà, ma con un gruppo coeso, coesissimo. Quindi è finale, da giocare in due gare, la prima giovedì 1 dicembre.
E poi quel 29 novembre 2016, 43 anni dopo la fondazione.
Siamo qui ad assistere a qualcosa di terribile. Me li immagino un po’ quei momenti. Quando giochi da un po’ in una squadra, tutto l’ambiente intorno diventa come casa tua. E il viaggio in trasferta, è davvero un momento intimo,di famiglia. Chi dorme, chi legge, chi gioca al tablet, chi fa foto imbarazzanti al compagno, chi si prende in giro, chi scherza, chi con le cuffie si isola e s’immagina già la partita, chi fissa il finestrino.
Staff, calciatori, giornalisti, dirigenti. Ognuno la vive in modo differente, ma la certezza è che tutti, in cuor loro, ridono di gioia, non vedendo l’ora di provare a coronare un sogno. Un regalo per il popolo, per i tifosi. E anche un po’ per se stessi. Il Destino però, è crudele. Dovevano prenderne un altro di aereo, ma la federazione aveva intimato di usare un volo pubblico e non un volo privato. Ed è andata così, 75 vite spezzate, ognuna con una famiglia e una storia dietro. Sei i sopravvissuti, oltre i nove calciatori salvi per miracolo, che chi per un infortunio, chi per scelta tecnica, non sono stati convocati (tra cui anche Winck, ex Hellas Verona).
Amo questo sport come me stesso, e al pensiero di essere fra loro, di essere nei panni dei compagni di squadra ammutoliti nel venire a sapere della tragedia nello spogliatoio, quello stesso spogliatoio che fino a poche ore prima li vedeva festeggiare…no, non lo accetto.
Come posso accettarlo? Quella Coppa è vostra, l’avete vinta, avete vinto il cuore di tutti.
Vi vorrei omaggiare con questo messaggio, in qualche modo lo leggerete.
Sempre a testa alta, petto in fuori, e coreografia alle spalle di un tifo che vi sarà sempre accanto. E in fondo lo sappiamo dai, siete solo andati in una lontana trasferta.