Le cifre della violenza sfondano la cortina di torpore ad ogni drammatico episodio di cronaca. Sono le cifre che le ormai numerose inchieste, le statistiche realizzate dai più svariati soggetti – da Amnesty International all’Istat, dall’Unicef al Consiglio d’Europa – consegnano a tutti noi.
Dati che ci sbattono in faccia l’anatomia patologica di un fenomeno con i numeri, le percentuali, ma anche le forme, le circostanze, i contesti, le storie di una violenza che da sempre e crudelmente, ancora oggi, colpisce le donne. Ad ogni latitudine del pianeta, qualunque sia la fede religiosa dei loro aguzzini o il loro status sociale, professionale, culturale. Certo con specificità – singolari o di gruppo – da “leggere” per capire bene i “contesti” e l’etiopatogenesi della violenza e dei crimini. Si potrebbe pensare, se non fosse vergognosamente tremendo, che la violenza – le violenze, perché, appunto, ce ne sono di tanti tipi – contro e sulle donne sia una delle rare manifestazioni di “uguaglianza-trasversale” sulla terra, nel “villaggio globale”: è presente ovunque, indipendentemente dal colore della pelle, dal Pil del paese di appartenenza, dalle forme di governo e da chissà cos’altro ancora.
La violenza sulle donne, quindi, nella sua specificazione più odiosa, quella domestica, è un cancro sociale che, stando alle choccanti stime riferite – qualche tempo fa – dagli organizzatori della Campagna del Fiocco Bianco, colpisce più del cancro, quello vero, più degli incidenti stradali, o della guerra nei troppi angoli del mondo in cui è presente.
Di fronte a queste evidenze non possono che esserci imbarazzo, inquietudine, sconcerto pensando che l’ambiente domestico è tante volte un luogo dove si consumano le peggiori tragedie, in cui le protagoniste destinate a soccombere sono le donne.
Altrettanto per le violenze sessuali, perpetrate, nel maggior numero dei casi segnalati, dal partner o ex partner. Tremende violenze subite da qualcuno col quale si è condiviso un ”pezzo” di strada o persino dei sogni, da qualcuno col quale s’era fatto qualche progetto di vita.
Violenze che esplodono quando mogli, madri, fidanzate provano – o cercano di provare – a dire qualche “no”, qualche “basta” a uomini, mariti, compagni, incapaci di intendere il proprio essere “maschio” in nessun altro modo che non sia l’esercizio di un atto di forza, di prevaricazione, di potere fasullo, sull’altro sesso, ai danni dell’altro sesso. Perché in effetti questi “maschi” non sanno o non sanno comprendere che fra uomini e donne esistono differenze “di genere” e non solo di “sesso”.
Allora, davvero, uno dei più grossi problemi connesso e chiamato in causa dal fenomeno della violenza contro le donne – un autentico masso poggiato sulla coscienza e sulla capacità di interrogarsi degli uomini – è proprio quello del ruolo che i maschi devono riconoscersi, ad assumersi nella lotta a questo intollerabile crimine. Un delitto che è sempre e comunque tale anche quando non dà morte in senso fisico, anche nei casi in cui le ferite del corpo femminile riescono a rimarginarsi, lasciando sempre aperte quelle dell’anima, violata e vilipesa.
Per questo la violenza sulle donne è un problema da uomini e degli uomini. Di tutti gli uomini e di tutte le donne, ovviamente. Di sicuro è un tema che non può continuare ad essere esclusivamente o quasi oggetto di cronaca, né come singolo “fatto”, né come riflessione o inchiesta, morbosamente seguita dai media e dall’opinione pubblica, sui singoli “fatti” o sul “fenomeno” stesso.
E’ urgente che l’universo maschile – dalla politica alle istituzioni, dal mondo della cultura e quello della tv e dello spettacolo, dalla scuola alle altre “agenzie” educative che hanno come interlocutori i giovani in formazione e le famiglie, dai luoghi di lavoro agli spazi di aggregazione, divertimento, socializzazione – si interroghi sull’essere uomini oggi, entro il mutato scenario in cui si strutturano i rapporti di genere.Anche scenario interetnico mutato. E’ innegabile che i profondi e irreversibili cambiamenti nelle relazioni fra i sessi, introdotti dall’emancipazione femminile hanno minato le basi di ataviche certezze maschili, radicate nel mito della virilità da mostrare e nutrire con e attraverso quote più o meno massicce di prevaricazione sulle donne. La
contaminazione di questa cultura del rispetto della donna deve avvenire quanto prima senza fraintendimenti e con chiarezza, in senso interetnico (i fatti odiosi di Colonia – l’ultimo dell’anno – sono lì ad interrogarci). E’ il momento, anzi siamo drammaticamente in ritardo su questo – dell’elaborazione del “lutto” da parte degli uomini, nei confronti della perdita di identità fondata sulla presunzione di poter perpetuare lo schema della disuguaglianza di diritti, opportunità, visibilità, libertà di pensiero, azione e soprattutto desideri e aspettative, fra uomini e donne (a tutto svantaggio delle seconde!).
Ci vuole una radicale rivoluzione delle menti e delle sensibilità maschili, innanzitutto – dopo quella dei costumi, delle consuetudini, dei rapporti sociali – dalla quale origini una nuova capacità di lettura dei mutamenti nella sfera delle relazioni di genere, insieme all’elaborazione di stili di interazione degli uomini con le donne improntati al riconoscimento e alla valorizzazione della differenza e dell’alterità di queste ultime. A partire, e non deve essere retorico, dai luoghi in cui si producono i diversi tipi di cultura: la scuola e le università, gli ambienti di lavoro, i “palazzi” della politica, gli spazi dell’intrattenimento televisivo o il mondo della carta stampata.
Ed in primis dalla famiglia, nella quale l’esemplarità del rispetto ”per” la mamma non può essere disgiunto dall’insegnamento quotidiano del rispetto “di genere” ai bimbi maschi e al “farsi rispettare” per le bimbe. E, in una società interetnica com’è, di fatto, la nostra, il messaggio dev’essere – senza sconti – transculturale. Senza alibi o indugi di alcun tipo, facendo ognuno la propria parte, dentro il proprio cosmo – micro o macro che sia – di rapporti, di incontri, di storie, di amicizie, di scambi e di confronti. E senza alcuna titubanza nell’assumersi ciascuno la propria fetta di responsabilità, che a volte è anche dovere di denuncia aperta degli atteggiamenti retrivi, per non dire violenti o volgarmente svilenti nei confronti delle donne, rinunciando al bisogno di tentare una difesa di “casta” o solamente alla tentazione di guardare altrove.
Non siamo all’anno zero nel processo di acquisizione di consapevolezza, per parte maschile, del nostro “essere coinvolti tutti”, in quanto uomini, e non dell’ “essere coinvolti solo” quanti si sono sporcati le mani. Per questo è già un primo, importante passo, come singoli, accogliere in forze gli appelli che, per la verità, da qualche anno e in tante città come la nostra, molti uomini hanno lanciato per dire: “la violenza contro le donne ci riguarda”, è “affare” anche nostro e non solo perché siamo noi maschi ad infierirla. E sarebbe un passo ancor più importante se le collettività, rappresentate dalle istituzioni locali, orientassero in questo senso la quotidiana azione di governo e di amministrazione della città. Tutto è possibile e deve essere fatto, con l’impegno di tutti, con la voglia di crederci di ciascuno di noi”.
Maurizio Vescovi – Membro Commissione Dip.Pari Opportunità-Parma