9 Luglio 2006 – 9 luglio 20015. Sono passati nove anni, ma per il calcio italiano in mezzo c’è stato un secolo di terremoti. Che lo hanno livellato verso il basso, ci hanno livellato verso il basso.
9 luglio 2006: chi non ricorda cosa stava facendo, nella notte di Berlino, quella in cui Cannavaro sollevava al cielo la coppa del mondo? Come l’istante in cui crollavano le torri gemelle, tutti ricordiamo cosa facevamo e dove eravamo. Perché anche chi del calcio si disinteressa, un paio di bandiere per la strada e un clacson che suonava lo ha sentito…
Ma nessuno mai, se non forse chi quella partita ha avuto il privilegio di raccontarla, immaginava che potesse essere l’inizio della fine. Anche se i perché vi erano già scritti dentro.
La squadra, era già anzianotta. Con rispetto parlando per i re del mondo già manifestava un’assoluta assenza di ricambio generazionale, ed una juventinità di fondo che attestava l’imprescindibilità dell’azzurro dallo stesso gruppo destinato alla B coatta per “Moggiopoli” e via dicendo.
Perché già allora, tolto qualche rigurgito d’orgoglio europeo rossonero e il grande splendore firmato Mourinho nella milanese strisciata d’azzurro, era già evidente un gap diventato oggi drammaticamente palese.
E la Juventus di quell’affondamento ha fatto l’opportunità per ripulirsi immagine e spogliatoio, risalendo più forte di prima. Mentre le altre sono rimaste tutte dove stavano: al palo. Immiserite di idee e denaro, tanto da dover cercare fondi ben lontano dai confini nazionali, giusto per non cancellare dall’universo calcio realtà che un tempo ne erano piloni.
Figlie di una nazione in crisi, in degrado, in mancanza d’ossigeno. Perché il calcio è lo specchio del nostro paese: non ci sono soldi per mangiare, e nemmeno per investire. I talenti fuggono, come i cervelli prima, ovunque vi siano soldi, opportunità, ambizioni reali all’alto, non al meno peggio del basso.
Perché quando il legittimo impedimento diventa legittima scusa per non infilare più nessuno nelle patrie galere, assodato che uno su mille ce la fa e gli altri rimangono falegnami della Lega Pro, o della serie D, senza essere baciati dalla fortuna di divenire Moreno Torricelli, invece che in bottega i soldi è meglio farli al centro scommesse (tarocche).
Perché la giustizia tutela i colpevoli, senza rispetto per le vittime, nemmeno quando sono i tifosi, costretti a vedersi presi in giro da un calcio scritto al telefono e disegnato a tavolino: perché lavorare la mattina e correre sul campo al pomeriggio, quando basta una telefonata per allungare gli zeri del conto corrente con la quasi certezza dell’impunità?
Del degrado umano morale e sportivo dell’Italia, il calcio diventa specchio, ambasciatore in Europa e mondo, con figuracce a raffica. Perché non c’ è respiro quando manca l’aria, e tutto sprofonda. A partire dai settori giovanili, da quei bacini di talenti e speranza ormai ridotti al lumicino, impicci più che possibilità, in uno sport che sbanda come la nazione di cui era immagine insieme a pizza e spaghetti.
Perché in questi nove anni non è peggiorato il calcio, ma il paese tutto. E se non fermeremo la crisi assoluta di tutto, prima o poi ci troveremo senza pallone. Lo dice Tavecchio, pessimo personaggio di un movimento che gli somiglia “ad oggi 5 squadre sono in regola con le scrivende nuove norme finanziarie per evitare altri casa Parma”, lo dicono i calendari e la geografia delle categorie tutti da inventare. Perché a parte la A, che boccheggia e perderà forse pezzi ad anno sportivo in corso, dalla B a scendere è un rebus tra fallimenti, squalifiche da scommessa, compravendita di partite come fossero figurine e compagini che rinunciano.
Mentre la gente si disinnamora. Del calcio, come dell’Italia.
E a pagare è il Parma, in casa nostra, ma tante altre in giro per l’italica pedata, anche se fanno meno rumore perché meno vincenti in Europa, meno splendenti nell’Olimpo. E la sola speranza che -ilcasoParma – sia un’opportunità: per il calcio di fermarsi a pensare e ricostruire, per il gialloblù di risorgere, araba fenice di se stessa, già rinata da mille crac, in pulizia e ordine anziché nella nazionalissima ottica del “fognino” – guaio coperto alla bene meglio da una montagna di luccicante m….
Quindi non chiediamoci dove eravamo nove anni fa, ma dove saremo tra nove. E se avremo ancora una bandiera per la quale riversarci in strada, suonare il clacson, cantare, sognare.
Sapremo ancora farlo?
(effedivi)