E’ la giornata nazionale contro la violenza sulle donne. Se ne parla tanto, ma davvero, cosa è?
Non è solo femminicidio, o botte. Non è solo occhi neri o acido nel viso.
E’ anche molestia psicologica, stalkin, mobbing sul lavoro. O pregiudizio che diventa vizio e scusante.
Mobbing, persecuzione, stalking o corteggiamento?
Nella rassegna on line del lavoro di politica ed economia sociale, sul Manuale di difesa personale curata da Adele Grisendi, così viene definita la differenza tra molestia e corteggiamento: “Il corteggiamento può essere definito un gioco divertente e può evidenziare vari aspetti a seconda degli atteggiamenti assunti, sia dal corteggiato che dal corteggiatore. E’ comunque un comportamento evidente che denota un certo interesse, che se non è assecondato non ha più ragione di esistere. Anche negli ambienti di lavoro può accadere che l’attrazione tra due colleghi si manifesti, oppure nel caso di una dipendente con il suo capo, l’importante è che non abbia tutte le caratteristiche della molestia sessuale e questo accade molto più frequentemente di quanto si possa pensare. Per molto tempo il problema è stato sottovalutato anche perché, come si fa a stabilire il confine tra corteggiamento e molestia sessuale?”
La psicanalista Gianna Schelotto ha risposto sostenendo che la molestia sessuale, quella verbale sempre in bilico tra corteggiamento e offesa, può essere definita dagli uomini stessi. “Gli uomini sanno benissimo – sostiene la dottoressa – quale sia la differenza tra complimenti e molestie, nel dubbio suggerisco ai maschi un test rapidissimo quanto infallibile. Prima di rivolgere le loro attenzioni a una collega o a una segretaria, si chiedano se lo farebbero anche in presenza della moglie. Se la risposta è no, meglio che rinuncino.”
Molestati o molestate?
In un suo documento Adele Grisendi afferma che: “La molestia sessuale è la tangente imposta a molte persone, in primo luogo donne, che lavorano o cercano lavoro.”
Infatti, nel mondo, le indagini svolte raccontano che a pagare di più sono un terzo delle donne occupate. Per questo quando si parla di molestie sessuali lo si fa al femminile, e per definire cosa s’intende per comportamento molesto è sufficiente riferirsi alle disposizioni comunitarie in materia: “Per molestia sessuale si intende ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altro comportamento basato sul sesso, che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro, ivi inclusi atteggiamenti male accetti di tipo fisico, verbale o non verbale”.
“Anche se colpisce soltanto una parte delle donne che lavorano – continua la Grisendi – la molestia di un capo, di un collega o del proprietario dell’impresa, interpreta nelle sue conseguenze estreme ciò che la donna rappresenta nella cultura diffusa e nell’immaginario maschile: un corpo da conquistare. Di conseguenza chi rifiuta le avances è una donna che “merita una lezione”, ossia ricatti, ritorsioni e anche persecuzioni.”
Michael Rubestein, inglese consulente d’impresa, evidenzia in un rapporto da lui stilato: “Le donne più soggette alle attenzioni dei datori di lavoro appartengono a quelle fasce considerate deboli come le donne sole, divorziate, separate, vedove o comunque senza un compagno. Donne che arrivano al lavoro in ritardo o fanno il turno di notte; donne che si drogano o hanno un handicap fisico; donne in periodo di prova o al primo impiego.”
Ma esistono anche altre realtà rappresentate da donne in cerca di lavoro, alle quali spesso viene chiesto del danaro in cambio di un impiego. Altro abuso molto frequente e paradossale; ma come si può chiedere soldi a persone che cercano lavoro? Vere e proprie tangenti che se venissero denunciate immediatamente, i datori di lavoro in questione si troverebbero certamente nel posto che più gli si addice: le patrie galere.
Ma le molestie vanno ben oltre, ci sono i pregiudizi che nonostante tutto ancor oggi esistono nei confronti delle donne ritenute non capaci quanto gli uomini a rivestire ruoli, o svolgere certe mansioni. E la dimostrazione è palese poiché nel mondo lavorativo soltanto un numero esiguo raggiunge vette – di esclusiva prettamente maschile – e tale fenomeno è solo la punta di un iceberg.
Che faccia ha il molestatore… è un deviato?
Adele Grisendi sottolinea ulteriormente il rapporto Rubestein del 1987 e le ricerche realizzate in molti paesi europei, comprese quelle effettuate in alcune città italiane chiarendo la figura del molestatore.
“Il molestatore – afferma – lo si incontra in tutti i luoghi di lavoro, pubblici e privati, colpisce le donne di tutte le categorie professionali e di tutte le mansioni, sia quelle esecutive che quelle di grado direttivo. Colpisce nelle fabbriche, negli ospedali, nei centri commerciali e nei piccoli negozi, negli studi professionali, nelle pubbliche amministrazioni e nelle cooperative di servizi o di produzione. Colpisce operaie e impiegate, maestre e postine, infermiere e dottoresse, giornaliste e avvocate, magistrate e indossatrici, attrici e donne delle pulizie, cantanti e commesse. Il molestatore appartiene a tutte le categorie sociali, ai livelli culturali bassi, come ai più elevati e non fa differenza se è scapolo o coniugato. Insomma il molestatore non è un uomo socialmente deviato, al contrario le richieste di favori sessuali appartengono al mondo della normalità. In generale – continua – chi molesta adotta comportamenti abbastanza riconoscibili: apprezzamenti verbali, battute pesanti e allusive, linguaggio volgare o scurrile, ammiccamenti, inviti pressanti, richieste implicite o esplicite di rapporti sessuali, magari con la promessa di effetti positivi sulla carriera. Ma c’è anche chi si sente gratificato da questi atti o situazioni e li considera forme di corteggiamento, forse un po’ spinte, alquanto grevi e ruspanti, ma tutto sommato le gradisce. E sembra che in alcuni ambienti televisivi, cinematografici, ma anche altri meno esposti, siano proprio le donne a sollecitare certi comportamenti al fine di ricevere favori e posti di lavoro.”
E le disposizioni comunitarie in tal senso esprimono che: “La valutazione soggettiva della molestia sessuale è giustificata proprio dalla volontà di non introdurre forme di repressione nel libero gioco dei rapporti tra i sessi”.
Ma esistono anche e “soprattutto” situazioni che riportano notizie come quella pubblicata anni fa da La Repubblica dal titolo allarmante: “Processo al talent-scout violentatore. Prometteva carriere brillanti” (La Repubblica 29-9-2003) che vede coinvolte ragazze che sognavano di diventare attrici e soubrette, e si sarebbero, invece, trovate con qualche soldo in meno sul conto e l’amara esperienza di avere subito abusi sessuali. “Le sfortunate ragazze con il miraggio dei set cinematografici, degli spots pubblicitari e con una gran voglia di sfondare si ritrovavano drogate, abusate e derubate del bancomat, carnet di assegni e gioielli.” Così scrive l’autore dell’articolo.
Mobbing-persecuzione. Cosa fare?
Ma come è possibile evitare queste situazioni incresciose, soprattutto come se ne può uscire? “Oggi si parla molto di mobbing – spiega la Grisendi – un termine inglese che in italiano significa persecuzione. Se ne parla come di un fenomeno neutro, riferito sia ai lavoratori che alle lavoratrici e viene presentato come una scoperta recente. In realtà le donne ne parlano da tanto tempo, infatti il rifiuto della molestia sessuale espone proprio al mobbing.”
Ma non è solo il rifiuto che può caratterizzare un effetto mobbing, si può essere “mobbizzati” anche per le proprie capacità superiori che distinguono dal branco, per antipatia e altro. “E’ bene ricordare – continua infatti – che il mobbing è una causa diffusa di persecuzione tanto da portare la persona colpita ad ammalarsi. Chi è molestato in genere perde la tranquillità e vive le giornate di lavoro in uno stato di ansietà e di insicurezza. Molto spesso non parla e non si confida, tanto che a lungo andare possono insorgere forme di disagio psicologico con sintomi quali: insonnia, nervosismo, inappetenza, svogliatezza, disattenzione. Nei casi più gravi, si verifica rifiuto del lavoro e depressione, con il risultato di rifugiarsi in assenze, ricorrenti per malattia. Gli effetti negativi di tutto ciò si ripercuotono sulla produttività aziendale e il datore di lavoro, che è tenuto per legge a garantire la tranquillità dei suoi dipendenti, deve fare molta attenzione che non si verifichino casi di questo genere. Ma oltre che agli effetti negativi sulla salute, si viene spesso emarginate, professionalmente e diminuiscono di conseguenza le prospettive di carriera”.
Quindi che fare? Accettare le molestie subendole in silenzio o denunciarle?
“Sono molte le donne che non potendone più di ricatti minacce o ritorsioni, piuttosto che denunciare preferiscono abbandonare il posto di lavoro senza averne un altro pronto e ci sono quelle che vengono licenziate senza tanti complimenti – continua – negli Usa, in Canada, in Inghilterra e nei paesi nord europei, le imprese e le loro associazioni sono molto attive nella prevenzione e nella sanzione delle molestie e del ricatto a sfondo sessuale. Qualcosa si comincia a intravedere anche in Italia, ma siamo ancora molto lontani e la soluzione migliore rimane, comunque, quella di rivolgersi alle associazioni che si pongono come obiettivo primario la salvaguardia dei diritti delle donne.”
Il reato di stalking
Con la sentenza n. 34015 del 21 settembre 2010, la Cassazione penale interviene in merito al reato di stalking ed interpretando estensivamente la norma di cui all’art. 612 bis del codice penale non fa altro che aumentare le tutele nei confronti delle vittime. Così Giovanni D’Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di IDV e fondatore dello “Sportello Dei Diritti” commentando l’importante decisione della Suprema Corte che ha annullato la sentenza con cui il Tribunale del riesame di Napoli revocava l’obbligo di presentarsi alla polizia disposto dal Gip nei confronti di un uomo accusato di molestie nei confronti della ex. Nel caso di specie la vittima non solo aveva subito le consuete molestie tipiche di tale reato come moltissime telefonate, ma era anche stata aggredita verbalmente di fronte a vari testimoni ed inoltre, l’ex fidanzato – indagato si era spinto sino a diffamarla presso il suo datore di lavoro con il fine di farla licenziare. Gli ermellini hanno quindi accolto il ricorso della procura e ripristinato la misura cautelare affermando che: “il reato ex art. 612 bis cp è previsto quando il comportamento minaccioso o molesto di taluno, posto in essere con condotte reiterate, sia tale da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero, in alternativa, da ingenerare nella vittima un fondato timore per la propria incolumità ovvero, infine, tale da costringere la vittima stessa ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Facebook e stalking
Facebook, probabilmente il più noto social network del momento, sotto la lente della magistratura penale. Infatti, la Corte di Cassazione ha ritenuto punibile per stalking la persecuzione attuata anche con video e messaggi inviati sui social network, con la sentenza n. 32404 del 30 agosto 2010. La sesta sezione penale della Suprema Corte con la statuizione in esame ha confermato la custodia cautelare pronunciata dal Tribunale di Sorveglianza di Potenza nei confronti di un uomo indagato per aver inviato una serie di filmati a luce rosse e fotografie alla ex e quindi per il reato di “atti persecutori” di cui all’art. 612-bis c.p., introdotto con il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 meglio noto con il termine anglosassone “stalking”. Secondo la sentenza l’uomo dopo aver avuto una relazione sentimentale con la donna aveva iniziato ad inviarle foto e video che li ritraevano durante i rapporti sessuali. Uno di questi era stato inviato anche al nuovo compagno di lei. A seguito dell’indagine era finito in carcere ed in seguito il Tribunale della Libertà lo aveva sottoposto agli arresti domiciliari. La Cassazione a cui aveva proposto ricorso contro tale decisione lo dichiarava inammissibile precisando che la persecuzione attraverso l’invio di video e messaggi tramite facebook è idonea a configurare il reato di stalking. Un’importante decisione ritiene Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” fondatore dello “Sportello dei Diritti” che indirettamente estende i profili del diritto alla privacy dei cittadini quale deterrente all’uso scorretto di taluni social network che impiegati impropriamente possono divenire delle “armi improprie” a servizio dei persecutori.
(essevierre)